“Cercare ciò che non è visibile all’occhio è esattamente ciò che fa il cinema”. Dice così Andrzej Zulawski a proposito dell’occhio del cinema, che deve mostrare un altro reale, nascosto tra le righe e nelle pieghe del vedibile. Per questo, ad esempio, si discosta dalla scelta di Manoel de Oliveira quando affronta (proprio come il regista portoghese) il romanzo La princesse de Clèves di Madame de La Fayette e realizza La fidélité (2000). Il risultato è un film visionario e sontuoso, travolto in un movimento continuo e percorso tutto d’un fiato, all’infinito, nella follia di un set che cambia e si trasforma sotto una spinta irrazionale e sensuale di gesti e di sguardi. Nelle rincorse del penultimo film di Zulawski si disegnano tortuose geometrie esistenziali che ricordano la fuga disperata e affannosa con cui si apriva il primo lungometraggio, girato in Polonia nel 1971. Trzecia czesc nocy (La terza parte della notte) appare, più di altri, film proiettato sul limite estremo di un precipizio, affacciato verso l’oscuro presagio di un abisso in cui si confondono i tempi e dove la memoria dei morti abita accanto ai corpi dei vivi. Opera manifestamente politica in cui si descrive, con la febbrile frenesia di un racconto metafisico, la lotta contro il potere. La camera a mano accentua il senso di urgenza proprio di ogni inquadratura, impegnata com’è nella ricerca di quel surplus di senso che il cinema deve carpire alla realtà per tradurlo, a sua volta, in flusso di immagini. Tutto si gioca su un duplice filo, non solo nello sdoppiamento d’identità dei protagonisti, o nella contemporanea manifestazione di presente e passato, ma anche nell’inutile, eppure caparbia resistenza dell’uomo contro il corso della Storia, talvolta crudele e oscura, misteriosa e sinistra come le parole dell’Apocalisse di San Giovanni, con cui si apre e si chiude il film.
Il vagare disorientato e scomposto sulla soglia buia del baratro torna nel successivo Diabel (Diavolo, 1972), ma il film (cupa ricostruzione della seconda spartizione della Polonia, divisa, nel 1793, tra l’invasione prussiana e la lotta contro la monarchia), per le evidenti allusioni all’attualità, alla rivolta studentesca e all’occupazione universitaria del marzo 1968, viene immediatamente bloccato dalla censura restando invedibile per diciotto anni. Ancora una volta è l’avventura distruttiva del potere e della violenza a colpire Zulawski, proprio come accadrà anni dopo con Boris Godounov (1989). Anche in questo caso, per la descrizione così netta del protagonista, la messa in scena di un mondo dominato dall’inganno e dall’ambiguità, per il senso sempre attuale dell’ammonimento, si potrebbe dire che si tratta di “una storia profetica su coloro che tentano di cambiare il mondo attraverso la violenza… una storia di oggi, non solo di ieri”. Dice così, il regista protagonista di La femme publique (1984) per descrivere ai suoi attori I demoni di Dostoevskij. Cinema di performances estreme, quello di Zulawski, del corpo infedele, geloso, (p)ossessivo, spazio mutilato dal piacere e dal dolore, allenato a compiere il gesto che non conosce stacco, a ri-produrlo all’infinito. Allenamento duro, che rende la scena iniziale di L’amour braque – Amore balordo (il training dei ladri con le maschere davanti alla banca) esemplare di-segno del percorso impulsivo e semantico del regista polacco, che si espande indietro e avanti nel tempo e nello spazio dei suoi film. L’amour braque (1985) è un musical che aderisce ai suoi personaggi, in stato di eccitazione e di calma, ovvero i due strati che continuamente convivono in ogni inquadratura zulawskiana, entrambi sospesi sull’abisso della vita e della morte, della crudeltà e dell’innocenza, del caos e della dolcezza. Corpifilm inseparabili: amati picchiati massacrati, macchine fragili e indistruttibili che emanano una moltitudine di odori (i film di Zulawski, in questo senso, sono capolavori in odorama, e senza la necessità di ricorrere all’effetto speciale) e si coprono di sudore sangue sperma saliva…
In un’unica sequenza che spezza il ‘periodo polacco’ da quello ‘francese’. Na srebrnym globie (Sul globo d’argento, girato nel 1976-78, poi interrotto dalla censura, e terminato solo nel 1986-87) non solo è il film ‘maledetto’ di Zulawski (ci piace pensarlo come il suo Dune), ma nell’ambientazione fantascientifica accoglie e ridistribuisce la frenesia e la calma, la spazialità del teatro evocata nelle lande desertiche, il caos orgiastico e le performances portate fino alla convulsione epilettica nelle coreografie danzate nei magmi di uno spazio filmicopittorico indagato in tutti i suoi strati e nella ricorrente – in tutta la sua opera – esplorazione degli ambienti, a partire da quei set così sontuosi che sono alberghi, stanze, corridoi, terrazze attraversate in ogni direzione dai personaggi, luoghi che confluiscono con naturalezza sensuale e geometrica negli esterni a loro confinanti – strade, spiagge, deserti…Film, Sul globo d’argento, che assume ulteriori motivi d’interesse proprio dalla sua forzata interruzione; infatti immagini vorticose di una città contemporanea sostituiscono le parti mai girate, con la voce off del regista che commenta i pezzi mancanti, fino alla straordinaria, breve, inquadratura finale con Zulawski in campo, riflesso nel vetro di un negozio, che si presenta: “Sono Andrzej Zulawski, regista del film Na srebrnym globie”. Forzato dagli eventi, Zulawski inserisce nella sua filmografia un’inquadratura che altrimenti non avrebbe mai girato, ma che esprime il senso più profondo della sua arte, quello di mettere in campo tutto se stesso, senza cercare compromessi. Il suo cinema è lì a dimostrarlo (senza mai voler dimostrare nulla, perché, come egli afferma, “al cinema bisogna nascondere l’intelligenza”, ovvero farla affiorare senza esibirla), imponente e indifeso, esposto esso stesso alle incomprensioni e ai maltrattamenti (della censura, del pubblico, della critica, anche nei confronti dei suoi film più noti, Possession e La femme publique). Innocente nello sguardo di chi si pone di fronte al mondo con lo stupore e l’eccitazione di un continuo ri-inizio. Un cinema ri-iniziato nel 2015 con Cosmos, quindici anni dopo La fidélité, per giocare una nuova, all’apparenza impossibile, sfida: tradurre in immagini l’ultimo romanzo di Witold Gombrowicz Cosmo, che lo scrittore polacco pubblicò nel 1965. Un labirinto di suoni, voci, rocambolesche espressioni verbali e un tessuto narrativo labirintico, ridondante, onirico, sfrontato nel descrivere le vertigini che possono scaturire dall’incontro di personaggi già posseduti dalle proprie ossessioni, espanse, non trattenibili. Ovvero, la poetica di Zulawski ri-trovata in tutta la sua limpidezza, che si incammina, ancora e sempre, per quella “selva oscura” citata dal protagonista e, più ampiamente, fonte inesauribile per il regista per la creazione dei suoi febbrili poemi visivi.
Nel film La nota blu si usa uno strumento antico che si doveva suonare senza mai pause, senza, cioè, mai poter lasciare i tasti, perché, altrimenti, il suono si sarebbe interrotto improvvisamente. Ci sembra di poter usare questa metafora per descrivere il suo cinema, che appare senza pausa, come un flusso ininterrotto.
È proprio quello che cerco di fare ed era pensando al cinema, e a quello che avrei voluto fare con La nota blu, che mi sono rallegrato quando abbiamo trovato quel particolare strumento nella soffitta della casa usata come set. Io sono un egoista, l’arte, la musica, la letteratura rappresentano il mio territorio e io mi muovo in esso con arroganza e superbia. Questo, e nient’altro, rappresenta il mio e il vostro territorio. Noi siamo i proprietari della cultura, ma che brutta parola “cultura”, e non i visitatori di un museo che vanno a vedere i grandi dipinti di Caravaggio o di Van Gogh. La cultura stessa non deve essere considerata un museo e per noi Caravaggio e Van Gogh sono meravigliosi perché li possiamo capire. Questo ambiente è quello che io chiamo dei grandi amici, amici molto più grandi di me, ma è il solo da me conosciuto, il solo che non mi disturba e non mi spaventa. Per rispondere a quello che mi chiedete, vi faccio una domanda. Avete mai provato a interrompere la vostra vita? Certo è possibile, ma solo con la morte, quindi con un gesto ultimo, estremo. Normalmente è impossibile creare delle pause nell’esistenza di un uomo e la stessa cosa deve valere, secondo me, per il mio cinema. Io non voglio interrompere nulla. Quando giro un film ci sono sempre due parti in ogni situazione. C’è il bianco e il nero, il grande e il piccolo, il grasso e il magro, c’è sempre questa bipolarità. Tu puoi fare film chiusi, con una forma più o meno perfetta, ma pur sempre una forma, con un inizio, uno sviluppo e una fine, secondo le regole classiche del racconto. E poi possiamo fare anche un film aperto, e la tentazione è grandissima. Il film su Chopin non ha un inizio, si apre dopo nove anni di convivenza tra George Sand e Chopin e un esordio che si porta alle spalle quei nove anni non può essere considerato un vero inizio. Allo stesso modo non si può dire che ci sia una fine. Semplicemente si conclude con Chopin che suona, con George che, per una volta, ha un atteggiamento sentimentale, nell’attesa della cosiddetta “nota blu”. Per raccontare la fine dei protagonisti sono ricorso all’uso dei burattini, grazie al loro intervento ho potuto dire che Chopin, da quel momento in poi, non ha più scritto musica, è partito, se n’è andato prima in Scozia e poi in Francia, e che è morto dopo tre anni dalla conclusione di questa storia. Quindi, se facciamo i conti, ci sono nove anni prima e tre anni dopo, e il film è collocato in questo breve spazio. Questo tipo di cinema così “aperto”, però, è pericoloso per un regista, perché la tentazione è quella di non smettere mai, di andare avanti a girare per sempre. La difficoltà sta proprio nel dire basta.
C’è una frase significativa ne La sciamana in cui si dice, a proposito di un disegno tatuato sulla schiena dello sciamano: “L’energia si attiva dal basso, passa e si rafforza attraverso il sesso, continua attorno alla colonna vertebrale ed esplode nel cervello come un’illuminazione”. In questa frase si ritrova il percorso e l’essenza di ogni suo film.
La sceneggiatura del film non è mia, ma è basata su un romanzo della scrittrice polacca Manuela Gretkowska. È una scrittrice bravissima, molto raffinata e famosa in Polonia. La frase a cui fate riferimento, però, è di Yoga Kundalini, uno Yoga indiano della sessualità. Quello che descrive è il percorso di liberazione dell’uomo e della donna dai condizionamenti della società e della cultura. Secondo questa teoria si può percepire con esattezza il movimento che compie in noi questo immaginario serpente, fino all’esplosione orgasmica. Questa definizione era ideale per un film come La Sciamana, dove la persuasione è solo quella dell’atto sessuale. È curioso che i grandi pensatori indiani abbiano concentrato la loro attenzione per diecimila anni sulla sessualità, credendo che ci fosse un mistero profondo da indagare. Ma la sessualità, secondo me, è solo una parte della vita e la spiritualità e il pensiero indiano sono una parte del pensiero umano di tutti i tempi. Io voglio attingere da ogni parte, ispirarmi a Platone come a Kundalini, a Freud come a Kant, voglio parlare di Buddha come di Gesù. Sono figure del pensiero umano che io, con arrogante umiltà, considero il mio terreno. Queste figure di illustri pensatori sono la mia famiglia, i miei zii, i miei nonni… In questo film, come in tutti gli altri, ho voluto mescolare i miei punti di riferimento, come in uno spiedino con tanti strati, ognuno dei quali mi appartiene.
C’è un’altra sua dichiarazione che ci ha colpito molto, quando dice che i suoi film tentano di mettere a posto il mondo. I suoi film, che iniziano nel caos e si concludono in una ritrovata pace, ci danno l’idea di un tentativo di organizzare un suo personale pezzo di mondo.
È proprio così, è come se volessi organizzare, sistematizzare ogni mio pezzo di vita, in cui confluiscono i luoghi in cui vivo, i luoghi in cui sono andato e che cerco di comprendere. Devo avere l’impressione di disegnare una traiettoria nella mia vita e non un caos cieco che mi travolge. È bellissimo l’uso che si fa della parola ne Le mie notti sono più belle dei vostri giorni. Mi dispiace che voi non abbiate potuto vedere l’edizione francese del film perché in italiano si è completamente perso il lavoro sulla lingua. Il film, infatti, inizia con la prosa parlata della realtà quotidiana, e cresce e si conclude con tutti i personaggi che parlano in versi, con le rime e i ritmi della poesia, in particolare si tratta dei versi alessandrini di dodici sillabe. Il passaggio avviene lentamente, come un contagio, a partire dalle frasi in rima che pronuncia la protagonista nei momenti in cui è in trance. Ho voluto giocare con il linguaggio anche per riflettere sull’eccessiva verbosità dei film francesi. Mi sono anche interrogato sulla necessità della lingua nel cinema e mi sono reso conto che il più delle volte è usata come la usiamo nella vita quotidiana, per un’esigenza di realismo, perché è diffusa la tendenza a perseguire il realismo a tutti i costi, anche se si tratta di un film di fantascienza. E poi ho notato che generalmente nei film si usa la prosa della vita quotidiana. Ebbene, io mi sono chiesto: perché stare con la prosa, si può fare di meglio e di più. E così è nato Le mie notti sono più belle dei vostri giorni, un gigantesco gioco tragico sulla parola. Una giovane, semplice e “incolta”, e un intellettuale raffinato, che perde l’uso della parola, si incontrano, possiamo dire, contro le parole. A ben vedere l’intero film è contro la parola che può uccidere, ma nello stesso tempo è un film che esalta le parole, perché senza di esse noi non siamo niente, non possiamo dire né fare niente, sarebbe impossibile comunicare.
Si potrebbe dire che la lingua usata da questi due personaggi scava dentro l’origine antica delle parole?
Lo spero, perché l’origine della parola sta nel corpo umano, proprio come l’amore. Esso si può spiegare attraverso le parole, appunto, ma la sua origine non è quella, la sua essenza, il suo significato sono inspiegabili perché l’amore è ancora uno dei misteri dell’universo. Semplicemente, con questo film volevo spiegare e mostrare tutto questo, e l’ho fatto con pochi soldi, con poco tempo, una piccola troupe e una minima sceneggiatura.
La parola è anche uno spazio, come se la si potesse vedere.
Speravo proprio in questa reazione quando stavo girando il film. E poi, cosa dice il Nuovo Testamento? “La parola diventa corpo”. Io non sono cristiano, ma questa frase è importantissima perché dimostra la possibilità della parola di diventare fisica.
Da dove arriva il titolo Le mie notti sono più belle dei vostri giorni?
La frase l’abbiamo tratta da una lettera che Jean Racine scrisse ad un amico che viveva a corte. Lui viveva in provincia, completamente da solo, e un giorno, con grande ironia, scrisse questa frase, mettendo in contrapposizione la vita superficiale della corte del re, del tutto assorbita tra potere, soldi e sesso, e la sua vita pacifica e solitaria nel silenzio assoluto.
A proposito di spazio, amiamo il modo in cui esso è filmato, come se ogni singolo luogo emani la storia, la vicenda, i movimenti dei personaggi, le stesse parole.
Esatto. Uno dei più grandi piaceri per me è proprio quello di guardare, lo considero un privilegio, tanto che ho il terrore di perdere gli occhi. Potrei perdere l’udito, non mi importerebbe, perché la musica, che amo tanto, è anche interiore. Gli occhi, invece, sono il solo contatto che ognuno di noi ha con il mondo e con le persone e le cose. Gli occhi sono importantissimi, e se tu guardi davvero le persone che ti circondano devi vederle nella relazione che hanno con il luogo in cui sono in quel momento. Io vi sto guardando e non posso separare voi dal luogo che è intorno a noi. Se stessi girando un film, credo che collocherei la macchina da presa in modo da riprendere anche lo spazio che avete dietro, e non è detto che il centro dell’inquadratura siate voi e non lo spazio vuoto e confuso che avete dietro. L’inquadratura non è solo una semplice ripresa, ma la capacità di guardare e pensare nello stesso tempo.
Da qui l’importanza, nei suoi film, delle fotografie. Sono un altro modo di usare gli occhi.
Ho sempre bisogno di fare questo lavoro con la fotografia, per me è come ribadire ogni volta l’essenza del cinema. Se si osserva la pellicola si vedono fotografie in sequenza, ogni quadro è immobile, poi, un quarantottesimo di secondo dopo, compare il movimento successivo, ma per più della metà di un secondo l’immagine è immobile. I fotogrammi, lo sapete anche voi, appaiono al nostro cervello in movimento per l’intervento di una sorta di inerzia dell’occhio, la persistenza retinica che fa sì che, per ogni fotogramma, noi vediamo per metà tempo l’immagine vera e per l’altra metà il fantasma di quell’immagine, in continuazione, per tutti i secondi del film. L’immagine se n’è andata, ma i nostri occhi continuano a vederne il fantasma. Questo mi fa dire che esiste una metafisica, una vita che non esiste all’interno della pellicola, che il cinema è dare movimento alle immagini statiche, un po’ come trovare la vita in un cimitero.
Nel film La terza parte della notte il tempo diventa spazio, il passato entra in campo, accanto al presente, senza alcuna frattura temporale.
Credo che lo spazio nel cinema sia totalmente lirico, mentre il tempo, che puoi tagliare con il montaggio, è sempre drammatico. In teatro questo è impossibile, quindi il tempo diventa lirico. Ma si tratta solo di parole, di concetti e io non sono un teorico, mi sento, piuttosto, un istintivo.
La musica è sempre molto importante nei suoi film. In particolare ci ha colpito l’uso che se ne fa in Diavolo e ne La sciamana. In quest’ultimo c’è un ritmo continuo e martellante. In Diavolo, invece, che è un film in costume, si usa la musica rock.
La musica è fondamentale e lo è sempre stata nel cinema, anche ai tempi del muto. Io credo che noi pensiamo in musica, possiamo non avere orecchie buone, ma il nostro pensiero ha una cadenza musicale. Anche quando si parla c’è sempre una musicalità di fondo che ha a che fare con l’accento di ognuno di noi e con il modo in cui si dicono le cose. È tutto molto importante per capire le persone nel profondo, e la stessa cosa vale per i film. Diavolo e La sciamana, in particolare, hanno musiche molto diverse ma sono state composte dallo stesso musicista, Andrzej Korzynski. Con Diavolo, che è del 1972, abbiamo fatto una cosa innovativa per quei tempi, è stato uno shock per la gente, ma è piaciuto molto, soprattutto ai giovani. La musica composta per questo film è fra le più belle composizioni rock scritte in quel periodo, perché anticipava di dieci anni la musica contemporanea. Io e Andrzej Korzynski ci conosciamo da cinquant’anni e ci capiamo senza neppure bisogno di parlarci. Lui è un uomo di grande talento e può fare qualunque cosa. Quando ha scritto le musiche per La sciamana ha scritto due temi, uno sinfonico, morbido e lento, che lui credeva adatto per le scene di sesso, e uno, ritmico, per le scene in cui compariva lo sciamano. Io, però, ho fatto il contrario e ho messo la musica meccanica sulla meccanica del sesso, e la musica più lirica sul passato rappresentato dalla mummia. Non so perché abbia deciso in questo senso e non lo voglio sapere. Mi piace così e basta.
All’inizio de Le mie notti sono più belle dei vostri giorni, ancora sui titoli di testa, ci sono le immagini di una tomografia al cervello che mostrano come il cervello possa essere cambiato da degli impulsi. In queste immagini è racchiusa tutta un’energia che ritroviamo in ogni suo film.
Il nostro cervello è una delle cose più strane che esistano in natura. Un gorilla ha quasi lo stesso cervello dell’uomo. Il nostro cervello è suddivisibile, a grandi linee, in cinque parti. È più complicato di come lo sto per spiegare, ma per semplicità possiamo dire così: la vita è nata dal mare e quindi noi abbiamo ereditato una parte del cervello del pesce; la successiva evoluzione si è compiuta quando l’uomo ha imparato a camminare, come le lucertole, da cui deriva la seconda parte; poi c’è la terza parte che è quella che abbiamo in comune con il coniglio, mentre il passaggio seguente è stato quello proprio dei mammiferi non evoluti. A fare la differenza è la quinta parte, quella del cervelletto. Qui si formano il linguaggio e il pensiero, e quando questa parte del cervello viene colpita succede quello che è successo al protagonista del film. Noi siamo estremamente fragili e delicati perché abbiamo solo questa piccola parte di cervello a racchiudere la nostra essenza. Crediamo di essere molto di più, ma non è così. Abbiamo solo questa piccola parte per pensare, capire, credere, sperare, immaginare. É il pezzo più importante del cervello umano ed è anche il più piccolo.
Tutto il suo cinema si può dire compreso tra i due gesti opposti dell’innocenza e della crudeltà.
È vero. C’è una differenza tra le parole e la cosa fisica che è il cinema. Nel cinema non puoi usare le parole, devi mostrare delle immagini e l’unico modo per esprimere il paradigma della verità è quello di mostrare che l’innocenza è rappresentata dall’infanzia, mentre la maturità, l’età adulta, è intrisa di crudeltà. L’innocenza è l’inizio, mentre il percorso della vita, il mestiere di vivere, è crudele, anzi, è imparare ad essere crudeli, molto o poco che sia. Io amo il cinema perché non è maturo e quindi non è crudele.
Conversazione con Andrzej Zulawski svoltasi a Trieste nel gennaio 2003 a cura di Giuseppe Gariazzo e Grazia Paganelli.