Pennellate di colore, denso e materico, e la città progressivamente si forma: sin dai titoli di testa, Bombay Rose descrive un mondo assolutamente impressionista, che però è anche un viaggio nel quotidiano dell’India. Il pretesto è fornito da una rosa, appunto, elemento comune di varie storie: c’è Kamala, la donna scampata alla minaccia di un matrimonio combinato, che di giorno vende ghirlande e di notte balla e intrattiene i clienti di un minaccioso uomo-falco, tutto per raggranellare il denaro necessario all’ultima fuga. C’è Salim, l’uomo che si innamora di lei, ma non ha un lavoro e ruba i fiori per farle dono di un simbolo del suo affetto. Ci sono gli anziani e i bambini che aprono ulteriori traiettorie affettive, con i giocattoli che diventano simbolo della memoria lontana e mezzi di comunicazione con chi ha perso la capacità di camminare o parlare. C’è, insomma, un mondo vivo, che si lega a doppio filo con una realtà da sogno, esplicitata dall’azione quasi sempre in secondo piano, contrappuntata dal passaggio delle auto in primo piano, che permette gli stacchi di montaggio. È il mondo del sogno, simboleggiato dai film di Raja Khan, divo d’azione di Bollywood, di cui è avido consumatore Salim. Ma anche dalle autentiche aperture oniriche del testo, che tracciano traiettorie a metà tra la fiaba e il mito, tra iconografie tipiche del folklore indiano (si pensi al poema del Ramayana) con l’immediatezza pur lirica e potente che crea collegamenti impossibili con le culture a noi più familiari (vengono in mente certi lavori di Lorenzo Mattotti, in testa ovviamente i suoi Quaderni indiani).
La differenza lo fa proprio uno stile pittorico che Gitanjali Rao domina con la volontà di creare un poema visivo. L’artista scrive, dirige, disegna, gestisce l’animazione, cura il montaggio e compare un po’ in tutti i dipartimenti per trasmettere l’impressione di un’opera personalissima, eppure opportunamente contaminata da riferimenti vicini e distanti al mondo in cui racconta: tra le influenze dei suoi studi, la filmmaker cita l’arte del Bauhaus, l’architettura internazionale e una spiccata sensibilità nel cogliere le ulteriori possibilità offerte dallo studio espressivo del colore. Una volta preparato il terreno, la storia può così concedersi il doppio passo di chi racconta una vicenda squisitamente popolare (a conti fatti un piccolo melodramma, pur nelle sue divagazioni più lievi) ma con implicazioni più alte: il ruolo della donna, lo scontro di culture e religioni (Kamala è hindu, mentre Salim è musulmano), le convenzioni sociali. Il sogno e il desiderio diventano pertanto chiavi di lettura del mondo e possibili punti di fuga di una realtà indagata nei suoi strati di colore attraverso una corposità del tratto, però sempre attenta a mantenere una certa levità iconografica. I personaggi sembrano come fluttuare, spesso non hanno ombra, propendono verso un altrove perennemente inseguito, sebbene siano ancorati a vite assolutamente problematiche. La ricerca è sempre orientata a una semplicità appagante, in grado di trasmettere empatia per i personaggi e fascino per le iconografie. La scelta dell’animazione da parte di Gitanjali Rao appare quindi chiaramente rivolta alla necessità di cercare soluzioni differenti per raccontare il nostro tempo e mondo. Presentato alla Mostra di Venezia 76 come evento d’apertura della Settimana Internazionale della Critica.