Scorrono sul piano inclinato della contraddizione Vittoria e Abdul, i nuovi eroi evocati dal portfolio di Stephen Frears per un duetto transculturale imprevedibilmente scaturito dall’austera epoca vittoriana. Lo scenario storico di fine ‘800, che non prevede ancora la longevità da terzo millennio di Elisabetta II e il rinculo antieuropeista della Brexit, contempla l’Impero britannico e la sua perla più preziosa, quella indiana. Ma Stephen Frears intinge come sempre il suo cinema nel contraddittorio che oppone Storia e personalità nel dramma della umana resistenza alla pressione del sistema. E in questo caso è la 67enne Vittoria, Regina d’Inghilterra e Imperatrice d’India, a spiazzare le aspettative e decidere che il suo migliore amico possa e debba essere un vaalletto 24enne proveniente dall’Uttar Pradesh, nell’India del Nord, di nome Abdul Karim, giunto a corte per offrire alla regina un esotico omaggio e da lei nominato il “munshi”, ovvero il maestro. Siamo nel 1887 e nei quattordici anni di regno che le restano Vittoria dovrà affrontare la strisciante ostilità della corte per l’amicizia e i privilegi offerti al simpatico, furbo e anche un po’ fraudolento indiano. Frears è su questa dinamica che gioca la parte principale del suo film, trovando spazio nelle preoccupazioni dei cortigiani di fronte alla curiosità esotica suscitata nella regale matrona dalla cultura musulmana di cui Abdul si fa portatore. La traccia transculturale resta però sullo sfondo, giacché Frears preferisce (saggiamente) non esporla, insistendo piuttosto sul legame umano che la vecchia regina e il giovane valletto stringono di fronte al rigore delle attese della corte.
Ovviamente il ritratto vittoriano offerto da Judi Dench ha momenti di sincera verità, ma questo era da mettere in conto. Un po’ delusi lascia invece lo stile meno puntuto del previsto che la regia di Frears adotta: Vittoria e Abdul sembra concludersi nella definizione caratteriale dei due protagonisti opposta alla grettezza della corte, mancando l’obiettivo di un contraddittorio culturale che non trova quasi mai spazio. Il demerito va probabilmente attribuito alla sceneggitura non propriamente brillante di Lee Hall, che era parso di sicuro più a suo agio nel ritratto di Billy Elliot e che non a caso Spieberg aveva un po’ screditato rispetto alla stesura dello script di War Horse.