Con La nuova lotta di classe (Ponte alle Grazie pag.144 euro 13) Slavoj Žižek continua a leggere la contemporaneità con il suo pensiero acuto e irrituale. Questa volta il filosofo tratteggia vari fronti che si contrappongono a livello globale: da un lato i conservatori anti-immigrati, dall’altro l’ISIS e la sua barbarie, e nel bel mezzo i progressisti che si fanno promotori del peggio del politicamente corretto e di irrealistiche soluzioni di spalancamento dei confini. Denunciando parecchi tabù della sinistra, Žižek inserisce le questioni dei rifugiati e del terrorismo in un più ampio quadro, collegandole alle responsabilità militari ed economiche dell’Occidente, alle nuove schiavitù e alle nuove apartheid necessarie all’odierno capitalismo globale, ai fanatismi interni ed esterni all’Occidente. Se c’è una soluzione a tutto questo, che – avverte Žižek – può sembrare utopica ma è l’unica realistica, è connettere i vari antagonismi interni al sistema capitalistico, matrice responsabile degli attuali conflitti su scala globale, e dare l’avvio a una nuova, rivoluzionaria lotta di classe.
Qui sotto trovate un estratto dal saggio nel quale Žižek incrocia povertà, Preston Sturges e Frank Capra.
Quando si ha a che fare con gli stranieri, dovremmo sempre ricordare la concisa formula di Hegel: i segreti degli antichi Egizi erano segreti anche per gli stessi Egizi. Non è dunque l’empatia, o il tentativo di comprenderlo, il modo migliore per entrare in contatto con un Vicino, ma una risata irrispettosa, che si faccia gioco di lui e di noi per la nostra reciproca mancanza di (auto)comprensione (comprese le barzellette «razziste»). Dovremmo spietatamente applicare la stessa intuizione anche ai poveri; o meglio, ai tentativi dei ricchi di «comprendere» i poveri, di capire che cosa si prova ad esser poveri. Alenka Zupančič espone compendiosamente questo punto al riguardo de I dimenticati, film di Preston Sturges del 1941 che tratta direttamente con i limiti della «comprensione dei poveri». Sturges smantella senza remore l’assioma «povero è bello» e ogni atteggiamento di condiscendenza al riguardo. E, quel che dal punto di vista filosofico è particolarmente interessante, sviluppa una specie di ontologia della povertà. Mi riferisco allo scambio di battute, giustamente famoso, fra Sullivan e il suo maggiordomo Burrows, quando quest’ultimo apprende che Sullivan vuole sperimentare su di sé povertà e privazioni, per fare un film migliore e più realistico sull’argomento. Ecco alcuni frammenti del dialogo.
SULLIVAN: Voglio andare in strada e capire che cosa si prova a essere poveri e bisognosi, e poi ci farò su un film.
BURROWS: Signore, se mi consente di dirlo, l’argomento non è interessante. I poveri della povertà sanno tutto, e solo i ricchi morbosi troverebbero la materia attraente.
SULLIVAN: Ma io lo faccio per i poveri. Non lo capisce?
[…]
BURROWS: Vede, signore, i ricchi e i pensatori – che di solito sono ricchi – considerano la povertà
in negativo, come mancanza di ricchezze: allo stesso modo, la malattia potrebbe essere chiamata
mancanza di salute. Ma non è così, signore. La povertà non è mancanza di nulla, ma una peste
positiva, virulenta di per sé, contagiosa come il colera, e sporcizia, crimine, vizio e disperazione
sono solo alcuni dei suoi sintomi. Bisogna starne lontani, foss’anche per motivi di studio.
Questo è un discorso incredibile, un discorso che dovremmo ripetere e recitare a memoria anche oggi
con rigore, contro l’approccio (esclusivamente) umanitario alla povertà e la sua sentimentalizzazione. Non
c’è assolutamente nulla di seducente o di «bello» nella povertà, e non dovremmo pensarla in termini semplicemente negativi: è un’entità dotata di una sua autonomia ontologica. La povertà non significa solo avere pochi soldi o per nulla; non si riduce alla descrizione delle miserabili circostanze del singolo. Per quanto un ricco di buon cuore possa voler pensare di essere, sotto tutta la sua ricchezza, un essere
umano dello stesso genere dei poveri, ha torto. Una volta che abbiamo una posizione (classe) sociale,
non esiste un grado zero di umanità riguardo al quale siamo tutti uguali. Il ricco non è uno di loro: non
sono nella stessa barca, e sarebbe estrema presunzione pensarlo. Sturges intraprende qui una polemica implicita con Frank Capra, regista la cui opera può essere concepita come una lunga variazione sul tema della presunta «bontà» del vicino (povero). Come scrive il critico James Harvey,
Capra sembra incapace di immaginare un povero che, una volta che lo si conosca, non abbia modi signorili. Farne la conoscenza è sempre il problema principale, come accade anche con i vicini. John Doe capisce «la risposta»: «l’unica cosa che può salvare questo mondo sballato» è che «finalmente impariamo che il vicino di casa non è un poco di buono». E se invece troviamo che lo è davvero, che è persino peggio di quel
che s’immagina, o almeno più molesto? Allora che facciamo? Ce ne dimentichiamo?
La stessa identica cosa vale per i rifugiati. E se «farne la conoscenza» ci rivelasse che sono più o meno come noi: impazienti, violenti, esigenti e in più, di solito, membri di una cultura che non accetta
molti aspetti che noi percepiamo come autoevidenti? Dovremmo dunque tagliare il legame fra i profughi e
l’empatia umanitaria, in base al quale noi fondiamo i nostri aiuti ai rifugiati sulla nostra compassione per la loro sofferenza. Dovremmo piuttosto aiutarli perché è nostro dovere morale farlo, perché non possiamo
non farlo se vogliamo rimanere persone decenti, ma senza il sentimentalismo che poi si incrina non appena ci rendiamo conto che la maggior parte dei rifugiati non sono «persone come noi» (non perché sono stranieri, ma perché neppure noi siamo «persone come noi»). Parafrasando Winston Churchill: «Talvolta fare il bene non basta, anche se è il meglio che possiamo fare. Talvolta dobbiamo fare quel che è necessario ». Non basta fare (quello che noi consideriamo) il meglio per i rifugiati, accoglierli a braccia aperte, mostrare partecipazione e generosità al massimo delle nostre capacità. Lo stesso fatto che questo sfoggio di generosità ci faccia sentire bene dovrebbe indurci un sospetto: non stiamo facendo quel che facciamo per dimenticare ciò che è necessario?
(Tratto da La nuova lotta di classe di Slavoj Žižek, Ponte alle Grazie)