Probabilmente la definizione più azzeccata di Vladimir Sorokin l’ha coniata Viktor Erofeev:”un romantico deluso che si vendica della bruttezza ontologica del mondo”. Sorokin, con Pelvin e Bolmat negli anni Novanta del secolo scorso ha ripensato la letteratura nella Russia post-sovietica mescolando memorie antiche e fenomeni moderni, ispirazione mistica e icone popolari secondo un metodo molto variegato e nutriente. Sono scrittori indipendenti che cercano la loro ragion d’essere, al di là delle fonti che utilizzano, servendosene in modo assolutamente consapevole e plateale. Per Sorokin non si tratta di imitare uno stile o una attitudine, ma di rifare il verso a certi codici (e a volte stereotipi) culturali per superarli e creare qualcosa di profondamente nuovo e originale. Se ne ha una robusta conferma con l’arrivo in libreria del bellissimo La tormenta (Bompiani, pag. 198 euro 17). In un perido storico indefinito (potrebbe essere oggi, ma anche domani), il medico Platon Il’ic Garin tenta, fra mille difficoltà, di raggiungere il villaggio di Dolgoe dove una misteriosa epidemia sta facendo strage fra la popolazione. Porta il vaccino e la speranza di guarigione, ma una tempesta di neve gli rende il viaggio infernale. Che effettua su una diligenza, una “propulsomezzi” tirata da decine di minuscoli cavallini. Nel suo grottesco peregrinare finisce a letto con una gigantesca mugnaia, incoccia in quattro “vitaminder” (fabbricatori di droga), scopre il cadavere di un gigante…Alla fine raggiunge un altro villaggio dove si parla pure il cinese. Sorokin ha dichiarato a La Repubblica che:”in questo libro ci sono due figure archetipiche del russo di provincia: l’intellighent (ndr intellettuali e professionisti impegnati nel sociale) e il contadino. I rapporti tra loro due non sono cambiati in questi ultimi duecento anni. L’intellighenzia russa contemporanea imita quella dell’Ottocento, con la sua fede nell’istruzione del popolo e in un futuro luminoso, anche se nella Russia post-sovietica non esiste più il popolo.” Come al solito Sorokin clona e rigurgita generi letterari e figure (retoriche e non) in un testo caotico e denso (un plauso alla bravissima traduttrice Denise Silvestri). Procede per strappi improvvisi, cannibalizza le vestigia del tempo passato in un’abbuffata di codici e fonti, al Guardian ha detto:”Per me i classici della letteratura sono carne viva di cui cibarmi”. Per questo chi sento l’eco, coglie il riverbero dei giganti, Cechov e Tolstoj su tutti, non sbaglia. Qui siamo, di nuovo, agli altissimi livelli di La coda, dove Sorokin elevava il linguaggio di strada a nobile materia narrativa e scompariva volontariamente dietro il processo di trascrizione della pluralità di voci e punti di vista delle persone in coda davanti a un grande magazzino. Se in La coda orchestrava una polifonia stridente, in La tormenta costruisce una temeraria prospettiva prima interiore, poi sociale, tanto vera da apparire irreale.