La musica sarà l’arma del futuro. Un giorno. Finisce con queste parole il viaggio africano di Fonko, documentario svedese diretto da Göran Hugo Olsson, Daniel Jadama e Lars Lovén che ci mostra il continente nero sotto un inedito e straordinario punto di vista. Mentre l’Europa del sud si sta sgretolando, l’Angola si afferma come il paese la cui economia cresce più velocemente al mondo. Una sorta di iperbole, che, tuttavia, coinvolge altre città dell’Africa, impegnate in un processo di rapido sviluppo. E in questo contesto del tutto nuovo e di grande fermento, i musicisti urbani hanno creato suoni nuovi, e tendenze che definiscono la nuova generazione. Si parla di “stili” come hip hop, kuduro, coupé-décalé e azonto, a seconda che si visiti il Sud Africa, il Burkina Faso o il Senegal, letteralmente creati dal cambiamento sociale in atto e dalla nuova identità africana, in paesi che lentamente stanno uscendo dal colonialismo. La consapevolezza, dunque, sta alla base del discorso di tutti i protagonisti di questo film, musicisti, giornalisti, produttori intervistati sul senso politico della loro musica o sull’entità di questo cambiamento.
Il titolo non è stato scelto a caso. Fonko in lingua mandinka significa “la cosa”, mentre in lingua wolof si usa per indicare il “prendersi cura l’uno dell’altro”, come a dire che si deve recuperare l’identità strappata per tornare padroni di se stessi, come individui e come continente. E infatti non sono pochi i riferimenti ad un Occidente sempre meno desiderato, perché, con un certo fragore, si sono capovolti i termini del discorso che poneva l’Africa “al servizio” dell’Europa. Accanto alle migliaia di migranti che lasciano la propria terra sui barconi della speranza, sta nascendo una luminosa tendenza controcorrente, che trattiene in Africa i suoi abitanti, a combattere per un equo sviluppo. La rivoluzione si sta compiendo a suon di musica, nelle strade e nei locali delle città, e coinvolge milioni di persone. In questo momento a Lagos, Luanda, Johannesburg, Cape Town, Dakar, Accra, ad esempio, si va verso un cambiamento, non solo nella musica, ma nel significato stesso di essere africani. Quello di cui parlava Thomas Sankara (presidente burkinabé dal 1983 al 1987, ucciso in un colpo di stato), la cui eredità non sembra essersi spenta. “Non è possibile effettuare un cambiamento fondamentale senza una certa dose di follia. In questo caso si tratta di non conformità: il coraggio di voltare le spalle alle vecchie formule, il coraggio di inventare il futuro”. Il futuro, dunque, la pazzia, sembra tutta incanalata in canzoni graffianti e ritmi esasperati, per recuperare la storia di ogni popolo e di ogni lingua. Un viaggio che si costruisce anche attraverso videoclip, performance dal vivo, materiali d’archivio dei fatti storici più salienti, e costruisce un ritmo ipnotico e perentorio grazie a vecchie registrazioni della voce di Fela Kuti, uno dei più grandi e “rivoluzionari” musicisti africani, che ci parla della segregazione razziale e dello sfruttamento, resi possibili dalla mancanza di unità in un continente saccheggiato. Göran Hugo Olsson, Daniel Jadama e Lars Lovén scelgono di dare una forma spezzata al loro film, graficamente aggressiva e stratificata. Il discorso politico si fa stile, la musica racconta la rabbia della gente, le parole descrivono l’utopia, ma anche la concretezza di un’idea. Vengono in mente lo sguardo sperimentale di John Akomfrah e il suo uso sapiente dei volti e delle parole scritte a tutto schermo. Segni imponenti di un discorso che mette radici e cresce in ognuno di noi.