Nel corpo di un festival, quello di Locarno, già composto di molteplici sezioni, e di quel “festival nel festival” che è, come di consuetudine, costituito dalla retrospettiva (quest’anno dedicata all’opera di Jacques Tourneur, cineasta della mutazione horror-noir, e non solo), si inserisce, da quindici edizioni, un ulteriore spazio, al tempo stesso esplorativo del recente passato e di un futuro imminente che trova la sua genesi nel presente, denominato Open Doors, posizionato di volta in volta su una differente regione dei Sud e degli Est del mondo. L’edizione 2017 si concentra sulle cinematografie di Afghanistan, Pakistan e Sri Lanka – quest’ultima una delle più sorprendenti e luminose del cinema d’oggi nella sua pluralità di approcci narrativi e formali – e rappresenta il secondo capitolo del progetto triennale, dal 2016 al 2018, che Open Doors riserva a otto paesi dell’Asia meridionale. Nei giorni del settantesimo festival del film, Open Doors Screenings propone una selezione di lungometraggi e cortometraggi compresi fra il 2003 (anno del fondamentale Osama dell’esordiente regista afghano Siddiq Barmak, primo film a essere interamente girato in Afghanistan dal 1996, quando il regime dei talebani proibì la realizzazione di qualsiasi opera cinematografica) e il 2017 (con l’anteprima mondiale di Namai ba rahis gomhor, A Letter to the President, lungometraggio d’esordio di Roya Sadat, produttrice e regista nata a Herat, prima cineasta nella storia del cinema afghano post-talebani).
Tra i titoli di Open Doors Screenings 2017 c’è un capolavoro: Davena vihagun (Burning Birds) del quarantenne Sanjeewa Pushpakumara, figura di primo piano del nuovo cinema dello Sri Lanka, qui al secondo lungometraggio, datato 2016, dopo Flying Fish (2011). Studente di cinema e appassionato di pittura, Pushpakumara ha portato queste esperienze nei suoi lavori, fino a firmare con Burning Birds un’opera che integra astrazione e carnalità, illuminazione pittorica e baratro esistenziale, colta passione filmica (mai citazionista) e radicale denuncia politica (anche in questo caso mai tematica, nel senso di un avvicinamento alla storia recente del suo paese – il 1989, la guerra civile – reso per sottrazione, per cose non dette proprio perché, nella loro brutalità, a-temporali e senza confini). La durata e lo spazio, e quel che vi accade all’interno, in inquadrature geometriche rigorose dove la macchina da presa talvolta si sposta con movimenti impercettibili, definiscono il film, costruito come tableaux vivants da Pushpakumara nel descrivere il viaggio all’inferno, senza ritorno, e sempre più a contatto con il Male e le diverse forme da esso assunte, di una donna, Kusul, alla quale offre un’interpretazione sublime Anoma Janadari – che nel 2000 e 2002 ha recitato in due film cardine della nouvelle vague srilankese, This Is My Moon e Flying with One Wing, entrambi diretti da Asoka Handagama.
Un villaggio. Una famiglia (Kusul, il marito, la suocera, sei figli). L’uomo arrestato dalle milizie locali, ucciso, gettato in una fossa comune con tanti altri, poi tutti bruciati. Per Kusul cominciano stazioni del dolore e dell’orrore. Il Male ha le sembianze del direttore della scuola che ha denunciato il marito di Kusul e poi espulso le sue figlie dalla classe; del capo del macello dove, unica donna, va a lavorare per sostenere la famiglia e che lui, essendo stato rifiutato sessualmente, fa picchiare e violentare da suoi complici; del pappone che gestisce un bordello nel quale lei si trova costretta a prostituirsi, fino alla retata della polizia che la fa finire, insieme alle altre prostitute, in carcere, forse denunciata dalla figlia più grande avendola pedinata e scoperta. Forse. Perché Pushpakumara, nella rappresentazione di una tragedia alta e implacabile, lavora sulle ellissi, sui non detti, elabora situazioni suggerendo possibilità narrative, lasciando a chi guarda il lavoro di proseguirle e completarle. Fino alla scena ultima, dopo che molte altre cose sono accadute. Kusul, dopo essere stata liberata e avere ucciso il direttore della scuola trafiggendolo con numerosi colpi di coltello, con il vestito e il volto insanguinati torna a casa, nella povera baracca ormai abbandonata (avendo Pushpakumara riservato agli altri familiari vari e differenti destini), e le dà fuoco. E si dà fuoco, anche se quel suo passo definitivo viene nascosto dal montaggio. (Personaggio, percorsi e gesti lontani eppure così vicini, per analogia impossibile, proprio perché tale, con un altro capolavoro, il Bruciare tutto letterario di Walter Siti). Anche nella scena finale, Pushpakumara filma con quella diffusa precisione infrangibile dentro la quale si insinuano spifferi, allusioni, opzioni narrative, creando e mantenendo per tutta la durata una costante, (in)visibile corda tesa.