Vincent Van Gogh ha un carattere irrequieto, capace di tenerezza e di scatti d’ira. È visto con diffidenza dagli abitanti dei paesini francesi che attraversa, alla ricerca della luce perfetta capace di illuminare il suo sguardo e i suoi quadri. Le sue giornate trascorrono sempre uguali, dedite al dipingere con ossessione febbrile, lontane dalle chiacchiere da osteria di alcuni suoi colleghi più attenti al sostentamento personale che alla propria ispirazione. Van Gogh ha pochi amici fidati: il fratello Theo, che gli manda soldi e gli garantisce affetto, il collega Paul Gauguin, alla continua ricerca di paradisi esotici dove dimenticare il grezzo contesto sociale dell’arte per creare una pittura nuova, l’amichevole locandiera che lo tratta con inusuale gentilezza. I bambini lo deridono e lo temono, le donne neanche lo guardano, gli uomini lo minacciano e si tengono alla larga. A Arles, a Saint-Rémy-de-Provence e a Auvers-sur-Oise – gli ultimi luoghi dove ha abitato – la sua vita si divide tra la furia del dipingere e i problemi mentali che lo allontanano sempre più dal mondo reale: un contrasto tra una vita miserabile e la solarità quasi irreale dei suoi lavori.
Julian Schnabel, che è un pittore prestato al cinema, torna, a più di vent’anni dal suo film d’esordio, Basquiat, a occuparsi di arte. O meglio, di un artista. At Eternity’s Gate racconta con andamento erratico gli ultimi anni di vita del grande pittore olandese soffermandosi sull’urgenza quasi fisica dell’atto creativo. Ai bozzetti di vita quotidiana si alternano infatti lunghe scene di pittura, a volte di ritratti, più spesso di immersione assoluta in una natura per Van Gogh sempre sbalorditiva. “Ogni volta che guardo un paesaggio, ci trovo sempre qualcosa di nuovo, che non avevo visto prima”: lo stupore dell’artista di fronte alla natura assume un carattere quasi metafisico, mistico, in contrasto con le pulsioni tutte terrene, quasi carnali, della sua ispirazione. Schnabel si sofferma sulla materia del colore, sui pennelli, sulle tele: gli oggetti del mestiere che Van Gogh porta sempre con sé, usandoli quasi come scudo da una realtà che lo rifiuta. Assistiamo così a una pedissequa ricostruzione di alcuni celebri quadri, alternati a incontri più o meno casuali: un prete, una scolaresca turbolenta, il dottor Gachet in posa per un ritratto. Fugaci momenti di contatto con il mondo in cui l’ardore della pittura è l’unica medicina che Vincent possiede per lenire le proprie ossessioni. Schnabel, attratto dalla mistica dell’arte e della dedizione totalizzante alla furia creativa, partorisce in realtà un’operina innocua, claudicante, piatta (tranne per qualche bizzarro movimento di macchina, accennato per sottolineare l’artisticità dell’operazione), didascalica più che didattica. Un biopic in levare, inusuale e asettico, che alterna fatti provati a ipotesi e dicerie e che si scioglie nei bozzetti quotidiani senza riuscire mai a catturare il fascino derelitto di un genio in difficoltà (nonostante un volenteroso Willem Defoe che, per associazione scorsesiana di idee, regala al suo Van Gogh un dolente afflato cristologico). At Eternity’s Gate è, in fondo, un film di superficie: di certo brillante nei colori, attinti a piene mani da una tavolozza infinita, ma privo di un senso problematico di profondità, di pietas umana, di scandaglio dell’ispirazione. In fondo Schnabel sembra più interessato alla propria idea su Van Gogh che a Van Gogh stesso e il risultato è un film paradossalmente narcisista, compiaciuto, impegnatissimo a rimirarsi allo specchio.