Jennifer Kent è una donna che non teme le sue paure, e preferisce anzi affrontarle con decisione. Lo aveva già dimostrato nel precedente Babadook, inaspettato successo di critica e pubblico, costruito in interni, attorno a due personaggi e all’eponimo mostro. Stavolta le traiettorie cambiano, si capovolgono i presupposti e Nightingale si ambienta prevalentemente negli esterni della Tasmania del 1825, descrivendo ancora un rapporto a due, ma in un contesto più corale e realistico. L’usignolo del titolo è quindi Clare, detenuta irlandese cui un ufficiale britannico ha tolto tutto, uccidendole marito e figlio neonato, dopo averle usato ripetutamente violenza insieme ai suoi sottoposti. La ricerca del carnefice, nel frattempo partito per ottenere una promozione, diventa quindi l’obiettivo dell’indomita protagonista, che trova una guida – e, progressivamente, un amico – nell’aborigeno Billy, con cui si lancerà all’inseguimento. I contorni di genere si ritrovano nei presupposti da rape-and-revenge in salsa coloniale, ma ciò che più conta è la radicalità della messinscena: scarna, essenziale e priva di orpello sin dalla scelta del formato video 4:3. Lo sguardo non stacca, ma affonda nella brutalità, si concentra sulla violenza colpendo con una durezza spesso insostenibile, e coinvolgendo la protagonista in un vortice d’orrore destinato a produrre altrettanta morte. Raggiunto il primo degli soldati che accompagnano il carnefice, però, qualcosa nel cuore della ragazza si spezza e la prima vendetta, seppur sanguinosa, ha il sapore di una resa.
Il registro cambia, Clare si fa più incerta, affronta i suoi fantasmi in un paesaggio irreale che riverbera l’artigianalità della messinscena di Babadook, il piacere del trucco quasi illusionistico. Ma sono attimi, momenti utili a riverberare la possibilità di aperture altre, così come altra è questa storia rispetto al semplice meccanismo violenza-vendetta. La regista guarda chiaramente alle vicende storiche del suo continente, costringe il pubblico a fare i conti con un colonialismo che ha infettato la terra producendo un clima da guerra civile. Quasi non si attarda a spiegare chi di volta in volta abbia commesso le atrocità che Clare incontra sul suo cammino, tra aborigeni impiccati ai rami degli alberi e case dei bianchi date alle fiamme. Ciò che le interessa è il resoconto bruto del reale, ma anche l’idea della condivisione d’esperienza, che poi è la stessa che finirà per unire Clare e Billy. La ragazza, in barba al suo essere vittima e outsider, è infatti inizialmente sprezzante verso l’uomo, lo tratta da servo e personaggio inferiore, salvo poi essere costretta a ricredersi. Il sottotesto magico della cultura aborigena è soltanto sfiorato, in un racconto che in barba ai 156 minuti di durata sembra voler affastellare troppi spunti, si ingolfa al centro, sospeso come gli spazi boschivi così meravigliosi e solenni, ma pure inquietanti, ed è fin troppo netto nella sterzata che condurrà a un finale di efficacia spettacolare ridotta. La sensazione è che i toni non siano amministrati con il vigore dell’inizio e che l’urgenza di tracciare paralleli con il presente prenda un po’ il sopravvento. Il lavoro dell’artista resta però coerente, il viaggio ha il sapore di una ricerca destinata a scoprire la pietà e la convivenza con i propri demoni da parte della donna che ha sofferto e impara a non (far) subire più – nel bene e nel male lo stesso punto d’arrivo di Babadook. Diverso il destino di Billy, legato alla forza primordiale della sua terra violentata dal saccheggio bianco, cui è perciò delegato il compito della vendetta finale. E del canto, tribale e antico, in opposizione a quello soave di una protagonista con voce d’angelo. Due volti di una stessa umanità, cui danno vita e sentimento gli attori Aisling Franciosi (di origini in parte italiane) e il sorprendente Baykali Ganambarr, ennesima piccola grande scoperta della Mostra di Venezia.