Che male c’è se una scrittrice di mezza età, brutta, dall’igiene approssimativa, accumulatrice compulsiva, al verde, mal vestita, che ama più i gatti che le persone, che tiene tutti a distanza (persino una sua pretendente libraia assai carina e gentile), che cerca di passare il più possibile inosservata, rifiutando lo star system e il marketing letterario, che insulta la sua agente, che non riesce più a scrivere, insomma che male c’è se una scrittrice sciatta e sociopatica in piena crisi di identità tenta di ritrovarsi facendo quello che uno scrittore fa più comunemente, ovvero cercare la sua voce nella voce di qualcun altro, appropriarsi delle storie dei suoi personaggi, vivere vite non sue? Il fatto è che le scritture simulate da Lee Israel, scrittrice realmente esistita interpretata magistralmente da Melissa McCarthy nel film Can You Ever Forgive Me? (Copia originale da noi) di Marielle Heller, non sono scritture di persone fittizie, ma di persone realmente esistite e decedute, star del cinema e del teatro perlopiù, di cui falsifica lettere dattiloscritte firmate, rivendendole a librari antiquari senza scrupoli.
Così, aiutata da un traffichino senza fissa dimora e dipendente da cocaina e sesso (un esilarante Richard E. Grant), ricetta documenti che fanno gola a collezionisti bulimici di vestigia di celebrità e si paga l’affitto. Il fatto è, sembra sottintendere il film, che l’apocrifia delle lettere della Israel non è molto distante da quella di ogni biografia e perfino di ogni autobiografia, perché, come ci ricorda tutta la tradizione illustrissima del romanzo modernista, Kafka prima di ogni altro, “confessarsi è mentire”: ogni tentativo di raccontarsi, anche il più sincero, comporta alterazioni, abbreviazioni, sottolineature della realtà dei fatti, ovvero un certo grado di finzione. Il fatto è che sperimentare fino in fondo la finzione può insegnarci qualcosa sulla realtà, in particolare sulla realtà degli altri, quelli veri, che forse a un certo punto rischiamo perfino di cominciare ad amare.