C’è scritto Sweat (“sudore”) ma si legge Sylwia, il nome della protagonista del secondo lungometraggio di Magnus Von Horn, regista nato nel 1983 a Göteborg ma polacco di adozione. Interpretata da Magdalena Kolesnik, Sylwia è attrazione mediatica, prodotto da vendere, vittima e carnefice di una vicenda che assume i toni del dramma esistenziale intrecciato ai meccanismi e alle trappole del fascino e delle emozioni. Sylwia è l’impulso ottico del film, una vetrina ma anche uno specchio, un corpo curato e modellato a perfezione messo in mostra per essere guardato dagli altri. È il suo lavoro: sudare e fare soldi, sorridere e motivare. È il fitness motivazionale, bellezza, tutto selfie e rigore, musica, sponsor e immagini. Ma Sylwia è anche un corpo altro, una presenza estranea a se stessa in cerca di risposte o, per l’ennesima volta in cerca di attenzione, che guarda noi spettatori provocando il nostro sguardo e innescando la nostra reazione e il nostro giudizio. Sweat ritrae tre giorni della vita di Sylwia Zając, una motivatrice del fitness di 30 anni che vive a Varsavia diventata una celebrità grazie ai social. Si è costruita da sola l’immagine della vincente: grande lavoratrice, scrupolosa nel mantenere il proprio corpo in splendida forma, ispira migliaia di persone a fare lo stesso. Dopo aver pubblicato su Instagram un post divenuto virale nel quale confessa di sentirsi sola, uno stalker si presenta fuori dal suo appartamento. Sylwia tenta di ignorarlo ma quando le manifestazioni della sua presenza diventano via via più pesanti, trova difficile restare positiva e continuare a sorridere.
È chiaro fin da subito che a Von Horn interessi entrare nelle pieghe dei meccanismi dell’esibizionismo emotivo anziché soffermarsi sulle strategie di narrazione della mercificazione del corpo. Sorprende questa sua agilità, precisa e controllata, nel pedinare la sua protagonista che canta She’s Got the Look dei Roxette alla guida della sua Fiat 500 pink, racconta ai suoi follower come preparare un banale frullato o mentre si ostina a mangiare il cibo concesso dagli sponsor. Quello messo in scena da Von Horn è un dispositivo drammatico organizzato su un intricato gioco di specchi e riflessi: Sylwia è un soggetto che guarda la sua immagine che a sua volta guarda noi spettatori ma al contempo guarda nella fotocamera intercettando lo sguardo dei suoi follower. Non solo. Silwya è anche un oggetto in quanto sceglie di essere guardata dai suoi follower, è vittima dello sguardo intruso e indiscreto del suo stalker e, infine, sa (?) di essere guardata da noi spettatori. La sovrapposizione di punti di vista rende Sweat una visione complessa e per nulla accomodante in quanto capace di scatenare la crisi dell’immagine, la demolizione delle certezze: distinguere il credere dal sapere non è più scontato né per Sylvia, né per noi. Le soggettive di Sylwia interrompono la linearità del flusso della sua ripetitiva giornata rendendo il suo ordine destabilizzante; lo sguardo fisso in macchina urta le più solide convinzioni dello spettatore e, inevitabilmente, accendono il paragone con Tonya (anche se il film di Gillespie andava da altre parti).
Così, concentrandosi sull’attrazione e la repulsione come vettori della relazione interpersonale (si guardi con attenzione la freddezza e la bruttezza dell’appuntamento con Klaudiusz, il calore umano dell’incontro con lo stalker ma anche l’effetto grottesco ma non meno traumatico perché drammatico, al compleanno della madre), Von Horn scatena una serie di sorprendenti e sanguinarie conseguenze scoperchiando nello spettatore quel giudizio morale tenuto a freno, e sporcando del tutto quella meschina nitidezza d’immagine fino a quel momento unita dalle maschere e dagli schemi social. «Gli esibizionisti delle emozioni mi affascinano – ha dichiarato il regista – forse perché mi trovo dalla parte opposta. Ho iniziato a seguire una motivatrice atletica e influencer. Il numero di foto e video che posta ogni giorno è impressionante. Ma chi è realmente, prima di iniziare a filmarsi? Guardarla più da vicino e utilizzare la mia immaginazione per colmare i vuoti. Sylwia è un personaggio del tutto contemporaneo. Accetta te stesso, dice, ma che succede quando è lei a non accettarsi? Quando lo stalker Rysiek entra nella sua vita, inizia a dubitare di sé, perché in molti modi lui le somiglia. Entrambi hanno questa apertura emotiva che li rende attraenti e affascinanti. Volevo esplorare le loro affinità e le ragioni per le quali questi ‘mostri’ a volte mi rendono geloso e al tempo stesso mi spaventano». Sweat mostra tre giorni della vita di Sylwia. Tre giorni in cui la donna cambia e si avvicina alla propria essenza, mette a fuoco certe distanze, inquadra meglio alcune cose. Forse è così. Perché sebbene le emozioni di Sylvia siano autentiche, non è da escludere che questo viaggio vissuto al confine tra l’invisibile e l’ipervisibile, divenuto poi incubo che confonde finzione e realtà, in fin dei conti sia servito soltanto per qualche like in più.
La 32ª edizione del Trieste Film Festival è visibile sulla piattaforma MYmovies