Il singolare e prezioso libretto che Salman Rushdie dedica al film di Victor Fleming Il mago di Oz ha ormai trent’anni, e fa parte della serie BFI Film Classics, analisi d’autore delle pietre miliari della storia del cinema, ma forse è venuto il momento debito di riaprirlo (tradotto da Giuseppe Strazzeri per Mondadori, recentemente ripubblicato da Cue Press con una prefazione di Giacomo Manzoli) alla ricerca del segreto di uno sguardo, di un’opera, di un tragitto esistenziale in esilio e insieme libero e avventuroso, incredibile nei suoi sviluppi, purtroppo anche negli accadimenti nefasti di questi ultimi giorni. L’autore identifica la pellicola del 1939, vista a 10 anni in India in mezzo a fiumi di fantasticherie rutilanti di una Bollywood trash e rigogliosa, quale scena primaria dalla quale scaturirà il suo immaginario, come fonte d’ispirazione e vocazione alla scrittura, tanto che il primo racconto scritto dal ragazzino, perduto ma poi forse ritrovato dal padre in punto di morte (piccola favola nella storia), s’intitola Over the Rainbow, quasi prefigurando quello sradicamento nel mondo e nello spazio immaginifico della finzione che lo scrittore vivrà come destino adulto. In questa leggenda fondativa c’è il tentativo di rintracciare nel film (il libro di L. Frank Baum del 1900 fu una lettura più tardiva e non così determinante) non solo i motivi di quella folgorazione, ma alcuni segreti di quel testo e, forse, della propria testa.
A short text about magic s’intitola la prima, corposa parte del libro, dedicata a un’analisi del contesto (fruitivo e produttivo) e dei sottotesti (intenzionali e accidentali) della pellicola, di quello che ha segnato quel colpo di fulmine infantile, comprese idiosincrasie e incompatibilità (una certa antipatia per il cane Toto, fra l’altro), così che l’aneddotica sulla pellicola, che ha prodotto una sterminata pubblicistica, si alterna a un close reading acuto di persona adulta, armata di videoregistratore, con ralenti, fast-forward e fermo immagine, e di sensibilità narrativa. Eppure la magia di quell’oggetto sembra sempre, almeno in parte, sfuggire. In questo testo senza un autore (la cui travagliata lavorazione ha comportato molteplici mani produttive e creative, e numerosi cambi di rotta) è interessante che l’oggetto magico per eccellenza, quelle iconiche scarpette rosse, che il libro come le prime versione volevano in realtà d’argento, sono portatrici di una magia non così chiara, mai definita con puntualità, come fossero un MacGuffin, oltre che uno strumento d’incantesimi. Anzi, proprio questo oggetto, feticcio cinefilo, eco fiabesca, prodigio protettivo (o orientativo), non si sa bene che fine abbia fatto. L’autore confessa averlo desiderato così intensamente fino a ricostruire, in un racconto che costituisce il secondo e ultimo capitolo del libro, l’asta che ha assegnato il magico cimelio a un acquirente anonimo, chissà forse lo stesso Rushdie, come si diverte a lasciare intendere lo scrittore fra le righe. Fatto storico e fantasia si fondono in piena sintonia di stile, in un autore capace di mescolare i fatti e la verità dell’immaginazione. L’oggetto magico è l’oggetto del desiderio.
In questo territorio di confine, o meglio, oltre il confine, ci conduce lo sguardo di chi scrive un altro mondo. Che sia l’incertezza, di sceneggiatori e spettatori, sul tipo di magia propiziato dalle calzature il centro nascosto della pellicola, e – forse – dell’esistenza dell’autore, ricorda l’apologo del bambino che si accanisce a smontare l’orologio nel capire che cosa sia il tempo. Gli strumenti della fiction hanno forse proprietà sintetiche, e non analitiche, capaci di dire qualcosa di più su certe alchimie. Sparizione. Trasformazione. Ricomposizione. Tre forme (formule) tipiche della magia. Interessante che si ritrovino significativamente anche nella vita e nell’opera di Rushdie, quali incantesimi del suo modo coraggioso di stare al mondo. Uscito dalla comfort zone domestica per scelta (per lui Over the Rainbow è l’inno del migrante e “there’s no place like home” una trovata di marketing che non risolve la tensione fra casa e altrove tematizzata dal nucleo anarchico e spaesante del film), creando un altrove (“I have a feeling we’re not in Kansas anymore”) che sarà del viaggiatore e (poi) dell’esiliato, del creatore di mondi come del fuggiasco. Dover sparire, attraversare la trasformazione (fino al camuffamento), il trasfigurare nel mondo narrativo i fantasmi, e infine fare i conti (dalla donna segata alla corda tagliata e ricomposta un tema magico per eccellenza) con morte e risurrezione, è stato il mestiere di vivere, e di creare, di Rushdie. E in queste ore in cui lotta fra la vita e la morte, fra la vista e la sorte, non possiamo che augurargli di saper utilizzare l’incanto segreto delle sue scarpette rosse interiori per tornare a donarci mondi colorati, altrove letterari in cui far rinascere il nostro sguardo, e fare esperienza di cos’è la magia.