Reinterpretare un film senza tempo come Vivere di Akira Kurosawa, trasposto nel dopoguerra inglese, diretto da Oliver Hermanus (Moffie, The Endless River), sceneggiato di Kazuo Ishiguro e interpretato da Bill Nighy. Una scommessa non facile quella di Living, vinta in partenza grazie all’attenzione e alla dettagliata ricchezza di particolari di cui questo film è portatore. Il progetto nasce dallo scrittore giapponese (naturalizzato britannico), deciso a rivisitare quel capolavoro con il benestare della famiglia di Kurosawa, per farne una storia ambientata nella Gran Bretagna del 1953, con i suoi burocrati protagonisti, che vivono nei sobboghi di Londra e prendono il treno tutti alla stessa ora, vestiti tutti uguali e con l’aria impettita sotto la bombetta nera. Opera a tutti gli effetti inglese, dunque, che vive nelle strade londinesi, nei caffè, negli uffici, come fossero un tortuoso labirinto da cui non si vuole/può uscire. A meno di non mandare all’aria le linee rette e mettere in discussione una vita intera.
È di questo che si tratta, in fondo: interrogarsi all’improvviso su un modello esistenziale da tutti condiviso e rassicurante, ma non per questo capace di garantire la felicità. Nell’ufficio dei lavori pubblici del comune, le pratiche si accumulano in pile polverose quando la loro soluzione richiede un impegno maggiore e “imprevisto”. Così, se è difficile sciogliere la matassa di un permesso tra i vari uffici di competenza, l’imperturbabile Mr. Williams archivia la pratica procrastinandone l’esito. Tutto cambia senza preavviso il giorno in cui in ufficio arriva un nuovo e giovane assunto, l’impiegata Margaret annuncia che sta per dimettersi e Mr. Williams scopre di avere pochi mesi di vita. Che fare? Fuggire per godersi gli ultimi giorni o tornare e cercare di cambiare le cose? Più lieve e positivo del cupo Vivere!, Living si propone come operazione di analisi di un cambiamento a partire da pochi elementi narrativi e raffinatissime scelte formali. Il regista sudafricano Oliver Hermanus si serve di contrasti netti per mettere in scena una storia di redenzione e risveglio, facendo dialogare gli opposti e trasformando Londra in un palcoscenico ricco di segni e suggesioni. E così, l’epifania del protagoinista è raccontata attraverso l’uso di ombre avvolgenti da cui Mr. Williams sembra emergere lentamente o, al contrario, si lascia avvolgere.
Nulla di inquietante, tuttavia, perché questo nero così plastico ha origini nella pittura o in certa pratica teatrale, appunto, perfetto per suggerire il confine tra il prima e il dopo, la forza di volontà necessaria a scavalcare le vecchie abitudini, il coraggio ritrovato, il gesto impulsivo e liberatorio. Elegante e malinconico, Living racconta come la morte “possa spingere di nuovo alla vita” attraverso una strada disseminata di indizi. Tutto è importante per tornare a capire il presente, a decifrarlo in senso collettivo. Lo sguardo dello spettatore è accompagnato via via verso una visione più ampia rispetto al microcosmo descritto nei primi minuti, il tutto grazie alle piccole rivelazioni della vita quotidiana che irrompe nell’abitudinaria schematicità del protagonista. Un coniglietto di peluche al luna park, un incontro fortuito, un nuovo cappello, un’altalena, una petizione, parole ascoltate furtivamente, il silenzio, la solitudine, una vecchia canzone scozzese. Tutto questo fa di Living un film denso e intenso, costruito di miniature prezione a formare un grande affresco.