Si vorrebbe cominciare col dire che questo è davvero cinema d’altri tempi, di quei tempi coraggiosi e intimamente ribelli che oggi sono solo scritti sui libri della storia del cinema. Ma è solo un desiderio e lo lasciamo lì da dove è venuto, ispirato dalla visione di questo autentico fulmine abbagliante che è questo film pieno di suggestioni dadaiste e per questo autenticamente ribelli, di messaggi subliminali degni di una analisi scientifica, carica di libertà formale. È proprio quest’ultima per Vera Chytilová, probabilmente a ragione visto il destino del suo lavoro, a costituire una delle forme di ribellione al potere, una di quelle concesse all’artista e lei – la regista cecoslovacca attiva fino al 2006 e di cui l’Occidente molto probabilmente purtroppo conosce solo questo film – l’ha usata tutta e anche bene, tanto da essere ostracizzata e allontanata dai set dopo questo film che preannunciava la Primavera di Praga, evento cruciale nella storia europea, antesignano della caduta del Muro di Berlino che a distanza di vent’anni avrebbe cambiato il volto dei rapporti politici nel mondo. Come sempre accade dietro la beffa più acida, dietro lo slapstick più estremo cova il pensiero ribelle e a cominciare da Pasquino, ma forse ancora prima con i Greci, la satira, la comicità, che negli anni si è trasformata a volte in umorismo nonsense, nasce da una ribellione profonda che con quelle cialtronerie scritte e studiate si prefigge altri fini e altri scopi rispetto a quelli, manifestati ed evidenti, di sedurre il proprio pubblico con lo strumento della risata.
Chi scrive, ad esempio, è fermamente convinto che tutto il cinema di Totò, sia un lavoro non casuale non solo attorno ai temi della morale contro ogni bacchettoneria rintracciabile nei comportamenti imposti da un pervasivo insegnamento di sapore clerical-reazionario, ma un insinuante destabilizzazione nei confronti di ogni potere costituito con una carica anarchica mascherata dalla esplosiva comicità che in alcuni casi – moltissimi in verità – si serviva del nonsense. È proprio attorno al nonsense che Vera Chytilová lavora, imprimendo al suo film un carattere non solo originale, se non quasi unico, ma soprattutto fortemente diretto a rompere i tabù delle belle forme, dei buoni comportamenti, del politicamente corretto, e soprattutto ribaltando, in quella fantasia cinematografica che sono il film e il cinema, ogni luogo comune sul femminile, prendendosi ogni rivincita possibile su una umanità maschile incapace di giungere al cuore della femminilità esplosiva delle due Marie protagoniste del film. Un nonsense che appare intimamente dissacrante in una sensibilmente diversa e uguale dissacrazione godardiana che in quegli stessi anni affermava la sua lezione.
Nel suo estremo e irridente sberleffo Le margheritine – titolo quanto mai netto e oppositivo rispetto ad una presunta delicatezza del film – con la sua iconografia che anticipa le forme e le interpretazioni della vicina rivoluzione della radicale ribellione del ’68, che avrebbe portato ad una definitivamente differente attribuzione di significati alle immagini, sintetizza proprio attraverso queste il suo contenuto antimaschilista, antipatriarcale. Il netto taglio della banana o la recisione della salsiccia prendono il posto di quella castrazione necessaria, quanto meno metaforica, per gli accenni a quel diffuso maschilismo manifestato dagli uomini in età che si accompagnano alle due ragazze. Così come è chiaro il loro intento, è chiaro il senso dell’essere messi tutti, a turno, su un treno e rispediti alla loro origine. Ma è ancora più chiaro il sentimento di rivalsa covata, che porta alla ideale castrazione del potenziale e indesiderato seduttore. È del tutto evidente che Le margheritine procede per sintesi e se si vuole per slogan, ma è altrettanto chiaro che il divertissement, poiché questo in fondo vuole essere, non avrebbe potuto diventare un trattato di politica e di etica, quanto piuttosto un catalogo di dura critica ad un sistema tutto coordinato dentro un preciso percorso di affermazione del potere. Vera Chytilová sviluppa le sue tesi grazie alla sintesi che l’immagine in sé rappresenta, utilizzandola nella sua duttile consistenza, anche qui senza condizionamenti, ma facendosi guidare dalla sua libera e istintiva creatività. Da qui derivano le sue libere associazioni, il passaggio inatteso dal colore al bianco e nero e viceversa, i segni sulla pellicola che ricordano le psichedeliche immagini di Brakhage.
In altre parole tutti gli strumenti della rivolta delle immagini che da lì a poco avrebbe mutato il senso della comunicazione, la sua interpretazione e perfino il suo destinatario che non sarebbe più stato il soggetto avvertito, ma il soggetto avvertibile, sensibile e disponibile a digerire ed elaborare la nuova comunicazione dei tempi – ancora oggi, paradossalmente all’epoca di internet – considerabile come iconografia d’avanguardia in virtù di una (ci si passi il termine) didascalizzazione sempre maggiore dell’immagine e della comunicazione. Non è un caso quindi che dopo questo film la regista cecoslovacca fu messa al bando dal suo Paese ancora sofferente dei cascami di una dittatura pervasiva, che avrebbe visto di lì a poco l’aprirsi di uno sprazzo di luce subito oscurato dai carri armati in quella notte del 23 agosto del 1968. Vera Chytilová con Le margheritine sicuramente con la consapevolezza dell’artista aveva abbattuto porte e finestre e con il suo piccolo film, prodotto con i soldi pubblici, aveva reso un servizio all’arte e alle sue forme libere, al cinema e al suo sguardo lungo sulle cose anche della politica, sguardo che si va sempre più affievolendo ed è per questo che si volta la testa all’indietro per cercare con gli occhi nuove immagini da elaborare.
“Le margheritine” di Vera Chytilova è disponibile sino al 17 agosto per lo streaming libero in lingua originale con sottotitoli italiani sul canale ArteKino Classics – Le perle delle cineteche d’Europa, al seguente link
https://www.arte.tv/it/videos/111078-000-A/le-margheritine/