La traiettoria della morte, sfida perenne dell’uomo che combatte contro se stesso, per se stesso, per superare i limiti del destino, per sfidare i confini che la vita gli ha destinato. Il Ferrari di Michael Mann (in Concorso a Venezia80) è un eroe tragico incastrato tra la fine del passato e l’inizio del futuro, quasi un angelo orfico che sta sul limitare tra la vita e la morte: l’ombra del figlio Dino, perso in infanzia di malattia, è lo specchio oscuro in cui Enzo Ferrari riflette ogni sua azione presente, la verità con la quale ogni mattina dialoga al cimitero di Modena. In quella morte si amplificano tutte le altre morti che deve sopportare, quelle dei suoi piloti, falciati dalla velocità che è il suo mito, il record da mantenere, la scintilla prometeica da rubare al Tempo…La formula del biopic cavalcata da Michael Mann è superata da questa capacità del film di scavalcare le coordinate biografiche in divenire per cristallizzare il ritratto nel momento preciso in cui l’eroe è sul crinale della decisione, sospeso tra ciò che è stato, ciò che deve essere e ciò che effettivamente sarà. L’anno è il 1957, quello in cui Enzo Ferrari deve trovare la forza per superare lo stallo in cui è finita l’azienda che ha creato dieci anni prima: il brand è amato ma non vende a sufficienza e soffre la concorrenza della Maserati. Bisogna piazzare più auto sul mercato e sulle piste e soprattutto bisogna aumentare il capitale con nuovi investitori, ma per trovarli la prima cosa da fare è riprendersi il record strappato dalla Maserati e tornare a vincere, magari nella mitica Mille Miglia.
Di mezzo però c’è la morte: quella dei suoi piloti, quella tragica di un gruppo di spettatori falciati sul ciglio della strada proprio durante la mitica corsa bresciana e, soprattutto, quella del figlio Dino, il cui ricordo avvelena la sua relazione con la moglie Laura, donna imprevedibile, torva e folle di una gelosia tenuta a freno, che detiene la metà delle azioni dell’impresa familiare e ha sostanzialmente in pugno il futuro dell’azienda. Dal lato opposto della vita di Enzo c’è la felicità che trova nella relazione con Lina, sua segreta compagna di lunghi anni nonché madre di Piero, l’altro Ferrari, il suo effettivo erede, che però non porta ancora quel cognome. Tutta la città sa di questa relazione fuorché Laura, che non deve scoprirlo soprattutto ora. Michael Mann dipinge insomma un uomo che combatte tra la spinta verso il cambiamento e il peso che lo tiene ancorato al passato: Ferrari è un film in cui il movimento e la stasi si combattono. La linea del futuro, che ossessiona il protagonista, si incarna nel mito della velocità, nella fuga in avanti, nel bisogno di non tirarsi indietro: c’è una sola traiettoria da seguire in curva, dice ai suoi piloti, e se corri affiancato al tuo rivale vinci solo se sei l’ultimo a toccare il freno, a farti indietro…
E poi c’è la linea del passato, che attanaglia il presente e trattiene le aspirazioni. Lo si potrebbe guardare come un melodramma introflesso, questo film, la storia di un uomo in contrasto con se stesso e coi propri limiti, che cerca con tutte le sue forze di uscire dalla condizione in cui si trova ad agire. In questo coerente con la linea autoriale di Michael Mann, in cui tutto è giocato sull’attimo che determina la decisione, sulla necessità di tenere fede ai propri sentimenti, sulle attese emotive da compiere, sulle relazioni che si avvitano su colpe reali o immaginarie e mettono in gioco ciò in cui si crede. La ricostruzione d’epoca, tra le corse e gli scenari cittadini, è uno sfondo che in realtà non occupa la scena, perché Ferrari sembra più un film di figure e di macchine. Le scene della corsa sono dinamiche e potenti, grazie anche al montaggio di Pietro Scalia, e l’intero armamentario del film in costume resta quasi come un involucro, in cui si muovono gli interpreti.