Le cose che si accaparra Jack White per la sua etichetta sono integralmente figlie del suo sentire e i dischi che produce (fece registrare a Neil Young un intero album, A Letter Home, 2014, in una Nashville Box, per dire) si riflettono idealmente in quelli che fa; e viceversa. Per attitudine, radici, alterità temporale, in primo luogo. D’altronde, sono sempre stati chiarissimi il suo legame con la grande tradizione americana e il suo amore per il blues e il rock’n’roll primigenio, dapprima trasfigurati coi White Stripes in parvenze più moderniste e poi sempre più ossificati in favore di una filosofia del suono totalmente rétro. In questo splendido (e triste: non sbirciate il finale del pezzo) disco d’esordio omonimo degli Island Of Love (Third Man, 11t, 39:42), che vanta anche una delle copertine più brutte (!) della storia del rock, c’è un po’ tutta quella roba lì, quel portato passatista anche quando non si avventura in decadi dorate, quella ricerca di un suono attuale senza essere contemporaneo; tutta tenuta insieme da un’indole che si potrebbe dire emo se non fosse così pregna e satura di altre memorie e altra elettricità. Pensate agli Hüsker Dü terminali, usciti dall’hardcore e proiettati nel pop verniciato di distorsioni; o a quei gruppi oscuri della Sub Pop che all’inizio degli anni Novanta stavano scomodi con un piede obbligatoriamente nel grunge e uno di lato vent’anni prima, tipo i Big Chief o i Rein Sanction o i Love Battery. Ma, forse su tutto, pensate a una incarnazione dei Dinosaur jr se solo i Dinosaur jr avessero avuto le radici nel fumo della West Coast para-hard anziché nel punk.
Senza impeti copisti, però: diciamo che gli Island of Love stanno a J Mascis & co. come i Sodastream potevano stare ai Belle and Sebastian (scusate il paragone off topic ma non me ne veniva un altro). Ma, e qui viene il bello, questi ragazzi non vengono dagli Usa ma dall’Inghilterra, dove hanno mosso i primi passi all’interno della (stanca) scena hardcore londinese con cui non condividevano quasi nulla. E sanno quindi anche stare in equilibrio non revivalista tra le cose di casa loro e dintorni: con una frenesia pop slacker ricoperta di fuzz alla Teenage Fanclub, ingenuità à la Syd Barrett (ascoltate bene come si appoggiano le voci nella conclusiva It Was All Ok Forever, che cela una ghost track), spezzature bizzarre alla Thin Lizzy (vedi il break assurdo fulmineo della bellissima Losing Streak) e quell’abilità di scrivere grandi ballad come l’incredibile Sweet Loaf (dal titolo evocativo-sabbathiano, ma ci si ferma lì: anche se si apre con un inequivocabile colpo di tosse!) che per assurdo a tratti li fa anche immaginare come degli Stones generazione Y. Trovate 40 minuti per ascoltare questo album, ovviamente trattato con sufficienza da chi vuol farvi credere che lo stato dell’arte della musica nel 2023 è Caroline Polachek. Anche perché è destinato a rimanere un caso isolato: gli Island of Love si sono infatti sciolti all’improvviso all’inizio di ottobre, dopo qualcosa meno di quattro anni di attività complessiva. Per lo scorno di Jack White, ma soprattutto del nostro.