L’illusione della coppia: Companion, di Drew Hancock

Tutto inizia con un ricordo, in un’aura un po’ fiabesca da c’era una volta: lei, Iris, è al supermercato e si imbatte in lui, Josh. Uno sguardo, un sorriso e immediato scatta il colpo di fulmine che li porta a diventare l’uno il Companion dell’altra, come da titolo. La voce fuori campo della stessa Iris, intanto, ci informa che quell’incontro con Josh ha rappresentato uno dei due momenti più qualificanti della sua vita. L’altro è stato quando lo ha ucciso. Si presenta così, nel segno di una verità rivelata in netto anticipo, l’esordio alla regia di Drew Hancock: un’opera che non teme di esporre immediatamente le sue carte, per stabilire un rapporto di complicità con lo spettatore, destinato però a essere abilmente disatteso e messo alla prova nel prosieguo della storia. Ritroviamo infatti Iris e Josh in vacanza, lei nervosa all’idea di doversi confrontare con il giudizio degli amici di lui, che invece la rassicura su come tutto andrà bene. E invece, quando uno degli astanti diventa troppo insistente con le avances, lei lo accoltella e lo uccide, dando così il via a un meccanismo thriller implacabile e destinato a coinvolgere tutto il gruppo. Già perché – e qui invitiamo a proseguire la lettura solo dopo aver visto il film – Iris in realtà è un sofisticato robot di compagnia, apparentemente indistinguibile da un normale essere umano, progettato per amare e servire il suo padrone. I suoi parametri comportamentali possono essere tarati a piacimento, con l’unico vincolo di non poter mentire. Può insomma uccidere, aumentare la forza e l’intelligenza, ma dalle sue labbra non possono uscire menzogne. In fondo, senza scendere ulteriormente nel dettaglio di quello che segue, il film è tutto qui, nella dicotomia tra un’immagine esteriore che inganna e una parola che rivela. Come già enunciato dal prologo, che peraltro è anch’esso falso in ciò che mostra (ma non in ciò che dice).

 

 
Hancock usa questa idea per fare del suo piccolo thriller una grande allegoria dei rapporti interpersonali basati su tossicità e inganno reciproco, in cui i legami amorosi spesso nascondono velleità di controllo sull’altro e voglia di limitare l’autodeterminazione dei singoli. Discorso che naturalmente assume rilevanza ancor più pressante se articolata nell’ambito del rapporto fra i sessi, con Iris che si ritrova nel ruolo della donna oppressa da un compagno simbolo di una cultura prevaricatrice e patriarcale. E che per questo dovrà inevitabilmente prendere coscienza di quella realtà di menzogne. Il tema, ispessito naturalmente dalle risonanze che oggi crea con i dibattiti identitari legati all’intelligenza artificiale, prosegue in questo modo un filone fantascientifico che si può far risalire a La fabbrica delle mogli (e remake), rinfocolato di recente da Don’t Worry Darling, ma che naturalmente nelle sue derivazioni chiama in causa tanta fiction speculativa sulla robotica, da Asimov a Il mondo dei robot. Lo spettatore, insomma, parteggia per la macchina finta ma sincera, che diventa paradigma di un’umanità migliore e progressista di fronte all’umano manipolatore e opportunista. Al contempo, il gioco tra immagini e parole ha anche una funzionalità strettamente spettacolare, perché sorprende lo spettatore con continue rivelazioni su una realtà che sembra assestata su equilibri molto lineari e ben definiti e che invece nasconde trappole a tutto andare, fra umani che non lo sono, robot che in fondo riescono a comprendere le complicazioni dell’animo, vittime che sono carnefici e vestiti da indossare o scambiare alla bisogna per abili momenti di messinscena a beneficio della verità che si vuole in quel momento raccontare.

 

 
Se il balletto delle posizioni è costruito visivamente attraverso questi stratagemmi, le spiegazioni sono sempre veicolate dalla parola, dal dialogo o dalle verità che il corpo sintetico non è in grado di camuffare. In questo Hancock fa tesoro del lungo trascorso nel campo della serialità televisiva e sull’ansia da performance dei meccanismi di scrittura preoccupati di tenere continuamente desta l’attenzione attraverso continui colpi di scena, e che trovano sempre nel dialogo una componente irrinunciabile della propria narrazione. Se la scioltezza nell’uso dei meccanismi e dei temi può comunque aprire ambiti di incertezza circa la furbizia dell’intera operazione, dove Companion colpisce nel segno è nella scelta del cast e in particolare di Louise Thatcher. Un’attrice capace di incarnare con abili sfumature interpretative una Iris ingenua nei colori pastello del suo look retrò, un po’ anni Sessanta, ma che non disperde nell’intensità del suo sguardo quell’anima punk rock già emersa dai suoi precedenti lavori – e il pensiero, più che alla pluricitata serie Yellowjacket, va al video Harness Your Hopes dei Pavement, tutto costruito su di lei, ora infagottata in abiti sformati, ora con chitarra e look alla Joan Jett. Non a caso, ogni qual volta Josh riesce a “disattivarla” sono proprio gli occhi a scomparire e a diventare bianchi. Un comando vocale per spegnere l’immagine di finzione, ma anche per domare quell’unica finestra di realtà che crea i giusti scivolamenti di senso in un’opera sempre attenta a restare molto controllata.