Michael Bay sceglie di portare in scena gli intestini d’America, di spiegarci dove Donald Trump trova la sua forza: nel disperato bisogno di semplificazione. E lo fa raccontando la storia dell’attacco al consolato americano di Bengasi in cui, l’11 settembre 2012, persero la vita l’ambasciatore Chris Stephens e alcuni uomini della sua sicurezza. Tredici ore di caos, sangue e violenza visti con gli occhi di sei contractors che incarnano il sentire profondo del Paese. Gente da contrapporre ai burocrati di Washington, uomini che mentre i politici parlano risolvono i problemi sparando, il grilletto invece del microfono, l’omicidio seriale come prassi politica. 13 Hours: The Secret soldier of Benghazi era atteso come atto d’accusa a Hillary Clinton e alla sua politica estera (allora era Segretario di stato), in realtà è un lucidisso spaccato sull’America contemporanea impastata di un machismo innocuo e di un patriottismo per nulla innocuo. Tratto da un puntuale e informatissimo libro del giornalista Mitch Zuckoff, il film se ne discosta a grande velocità per concentrarsi su ciò che interessa davvero a Michael Bay. Ed è il punto di vista dei mercenari a Bengasi per organizzare la protezione di una base della Cia, che decidono (non richiesti) di partecipare alla battaglia che divampa intorno al consolato. Quella sporca (mezza) dozzina entra in scena con Jack Silva (John Krasinski) che sbarca all’aeroporto, dove lo preleva Tyrone Woods (James Badge Dale). Sono due vecchi commilitoni dei corpi speciali, gente che ha problemi finanziari a casa, ma che in realtà sa e vuol vivere solo in modalità Call of Duty (a tal proposito si legga Io sono un’arma di David Tell, Longanesi).
Tutti i rappresentanti del potere che vengono alla ribalta sono detestabili (a parte il console che è dipinto come un ingenuo idealista). E su tutti spicca il capo della Cia (David Constabile), che disprezza i suoi angeli custodi, tatuatissimi, proletari, con un look in puro stile ZZ Top. Bay suggerisce che per fare politica oggi bisogna essere una maestro di autentica doppiezza con una insana propensione ad ingarbugliare ulteriormente gli scenari già intricati di loro della politica internazionale. Invece Jack e compagni non comprendono la Libia, non ne hanno gli strumenti e non è nemmeno un compito loro, ma capiscono l’estrema pericolosità della casa che attende il console, indifendibile, in una città che ti fa percepire il pericolo, l’ostilità, anche solo osservandola da lontano. Il film corre a rotta di collo verso la battaglia, potentissima, che si dispiega in oltre 90′ su 144′ di durata totale. Soprattutto i primi due Transformers erano delle vere e proprie installazione di arte moderna, con evidenti riferimenti al Nouveau réalisme laddove Bay si pone in antitesi a ogni concezione dell’oggetto artistico come forma statica, per non parlare delle accumulazioni di metallo onnipresenti che ricordano da vicino i lavori di Arman. Qui invece gli scontri armati perdono la valenza tridimensionale per lavorare sulla potenza pittorica dei rossi e dei gialli delle esplosioni, del blu della notte attraversato dai traccianti (la tavolozza e approntata benissimo del direttore della fotografia Dion Beebe, già al fianco di Michael Mann in Collateral e Miami Vice). L’assedio è magnifico: ritmato, ipnotico, cadenzato, costruito per accumulo, in uno scenario desolato e fantasmatico che non può non ricordare il carpenteriano Distretto 13- Le brigate della morte. I nemici sono alieni, zombi, non-persone, ma non per razzismo (accusa ridicola) ma perché sono visti così da chi viene catapultato dalla provincia americana per le vie di Bengasi. Il pianeta è un campo di battaglia, gli eroi sono solitari e ultimi.