Una lezione di Storia. Poco conosciuta, come molte altre, in Italia. E una lezione di cinema: semplice, diretto, tenero e spietato. Mahamat-Saleh Haroun (da anni il cineasta fuoriclasse della galassia sub-sahariana, insieme a Abderrahmane Sissako) ha una filmografia compatta nel senso di uno sguardo essenziale eppure altamente emotivo con il quale penetra le inquadrature, poco importa quale sia la durata o il genere. Con Hissein Habré, une tragédie tchadienne, il regista del Ciad ha realizzato il suo primo lungometraggio documentario. Per nulla distante da film di finzione come Abouna, Un homme qui crie, Grisgris, Daratt o da testi contaminati nei linguaggi come Bye Bye Africa o ancora da incursioni brevi e folgoranti quali Letter from New York e Kalala. Una lezione di Storia. Hissein Habréè stato presidente del Ciad dal 1982 al 1990. Instaurò una dittatura durante la quale oltre quarantamila persone furono uccise nelle prigioni dalla polizia politica del regime, nota come DDS (Direction de la Documentation et de la Sécurité), avallata dal sostegno degli Stati Uniti e di altri paesi africani e occidentali. È la voce stessa di Haroun che, in apertura, spiega questi fatti. Ma la sua non è una voce off documentaria, è quella di una persona che, come in un diario (e come in altri suoi lavori), sceglie un tono intimo sbriciolando così i confini dei generi. E non usa solo la sua voce, Haroun. Fra le immagini che aprono il film (squarci di alberi, cielo, nuvole, di un sole nascosto, della polvere della terra, di una piscina) c’è anche quella di lui che scrive su un quaderno e poi cancella la frase che ha scritto. Le mani al lavoro condotte al movimento dal suo pensiero, dal suo volto intento a trovare le parole e le immagini giuste per immergersi nella tragedia che visse il suo popolo.
Memoria. Ancora una volta, nel cinema di Harounè fondamentale, bisogna fare i conti con essa, sempre. Il testo più vicino a Hissein Habré, une tragédie tchadienne è Daratt, dove un giovane andava alla ricerca dell’uomo che gli uccise il padre per vendicarsi uccidendolo a sua volta. Ma non lo fece. Così come nel film presentato al festival di Cannes (fuori concorso) non si tratta di cercare, anni dopo quel decennio buio, vendetta ma perdono, verità e giustizia (ovvero che Habré sia giudicato da un tribunale e condannato per i suoi crimini). Haroun, accompagnato da ClémentAbaïfouta, presidente dell’Association des victimes durégime d’Hissein Habré, incontra uomini e donne sopravvissuti all’inferno delle prigioni e delle torture, li mette a loro agio nel raccontarsi, nel ricordare, nel descrivere anche nei dettagli le ferite materiali e i danni psicologici irreversibilmente subiti, li filma ma soprattutto ascolta. In piani frontali, fissi, o più morbidi, li introduce, lascia, ri-prende intrecciando spesso le storie. È un lavoro, come già accaduto altrove (in Sudafrica e nella Cambogia descritta da Rithy Panh), di verità e riconciliazione. Dolorosa, a tratti possibile (il torturatore che, infine, accanto a colui che torturò, gli chiede, con molta difficoltà, perdono), a tratti negata (un uomo si rifiuta di incontrare la persona che denunciò). Storie e persone che non hanno taciuto, raccolte dall’associazione e dall’avvocata Maître Jacqueline Moudeïna che ha consacrato oltre venticinque anni del suo lavoro a quella causa. Nel 2013 Hissein Hibré, che aveva trovato rifugio in Senegal, fu arrestato e nel luglio 2015 a Dakar iniziò il processo (la sentenza è attesa per la fine di questo mese). Haroun – con un raccordo semplice, di estrema limpidezza e naturalezza, filmando il mare e le onde alte e bambini che corrono ai bordi dell’inquadratura – e il suo film hanno raggiunto il Senegal. Il suo sguardo morbido richiama bambini che si avvicinano alla macchina da presa e (ci) guardano. Filma un istante di quotidianità caotica. Poi, con scelta spiazzante, entra nel palazzo di giustizia vuoto, in attesa del processo, e porta il suo sguardo fra le sedie, ponendo infine la macchina da presa dietro il tavolo dei giudici per un lungo totale dell’aula (che assomiglia a una sala di cinema deserta). Fuori campo, la voce dell’avvocata annuncia l’inizio del processo (che non si vedrà). Haroun mette in cortocircuito livelli temporali, il dopo con il durante. E affida l’ultima scena alla confusione creatasi poi in tribunale con la folla che cercò di assalire Habré. Non serve altro. Bastano pochi tratti. Come, in precedenza, dedicare istanti del film alle donne e agli uomini radunati nella sede dell’associazione intenti a mangiare sorridendo dopo avere appreso la notizia della condanna dell’ex presidente. Come, ancora prima, ricordare un fatto di cronaca degli anni Settanta che precedette l’ascesa al potere di Hibré: dice Haroun che fu lui il responsabile del rapimento dell’archeologa francese Françoise Claustre nel 1974 (che ispirò Raymond Depardon perLa captive dudesert del 1990; e non a caso le fotografie d’epoca del film di Haroun provengono dall’Archivio Depardon). Sovrimpressioni di memorie di cinema, anch’esse mai sottolineate, semplicemente espresse e per questo ben più indelebili.