Nel 2016, per opera dei collezionisti francesi Julien Dechery e DJ Sundae (pseudonimo di Laurent Richard), l’etichetta australiana Efficient Space diede alle stampe nell’indifferenza più o meno generale una compilation intitolata Sky Girl (da recuperare contestualmente, se arriverete incuriositi a fine lettura di questo articolo) che ha poi goduto con gli anni dello status di semi-cult sotterraneo. Si trattava di una raccolta di singoli profondamente malinconici registrati tra il 1961 e il 1990 e pescati tra millemila carneadi folk-pop-psych mai giunti alla pubblicazione di un album: straordinaria per coesione e coerenza armonica, e ovviamente destinata alle anime belle che non hanno mai smesso di arrabattarsi fra Nuggets, Rubble, Pebbles e tutti i più oscuri ripescaggi ancora da scoprire della stagione più esuberante, nutrita e labirintica dell’intera storia del rock. Pochi mesi fa (oddio, quasi un anno a onor del vero: l’edizione in doppio vinile è uscita a ottobre 2022), la label ha rincarato la dose con la medesima formula: Ghost Riders (Efficient Space, 17t, 53:21), messa insieme questa volta dal collezionista svizzero Ivan Liechti e descritta come “A North American road trip of coming of age garage soul”, è una nuova raccolta di sole ballate, sempre al confine tra psichedelia “soffice”, folk pop sui generis, blues floreale, appunti di garage/beat educato e angst generazionale quasi in linea Smiths ante litteram, che circoscrive ulteriormente sia il periodo di ricerca (il decennio a cavallo tra la metà dei Sessanta e la metà dei Settanta, e più precisamente 1965/1974) sia le matrici geografiche (fatta eccezione per il gruppo di Montréal The Bohemians, tutti gli artisti coinvolti -a loro totale insaputa- sono statunitensi).
Sfilano così in parata “da cameretta” rigorosamente lo-fi, i sogni di un pugno di teenager che non ce l’hanno fatta (ma avrebbero potuto), incantati dal miraggio del rock, dai cascami della controcultura californiana sixties, dagli albori del prog prima che scoppiasse in pomp, eccetera. Vi aspettano, tra le altre cose e sempre con testi esistenzial/giovanili, memorie di 13th Floor Elevators (She, The Fortels), languori rhythm ‘n’ blues da Elvis ’69 sfiancato in acido (Twilight Zone di Jerry McGee), delicatessen folk-emotive da qualche parte fra Carole King e Sibylle Bayer (Until Then di Tresa Leigh), eccentricità acustiche quasi abstract-country (The Boy Called Billy Joe di Carroll) e perfino una cover di Here, There and Everywhere dei Beatles ad opera dei misteriosi The Common People (nell’immagine in apertura). Un brano che viene sì da Revolver (1966), ma è già trasfigurato nelle voci filtrate e nelle atmosfere lisergiche post-Sgt. Pepper’s. Il resto lascio che siate voi a scoprirlo: tenendo presente che verrete catapultati in un’epoca complessa e perduta in cui la sola possibilità di registrare un brano era un’opportunità sudata e preziosa; e in cui, a volte, solo il caso separava le luci della ribalta dall’oblio istantaneo.