Anna di Niccolò Ammaniti e il volto feroce dell’infanzia

Di Anna, la miniserie Sky che Niccolò Ammaniti ha tratto dal suo romanzo omonimo del 2015, si è parlato tanto. E soprattutto per “meriti” tematici. La Sicilia devastata da un’epidemia, di origine misteriosa, in cui solo i bambini sono sopravvissuti, ha facilmente attivato drammatiche analogie con questo presente, sovvertito dal Covid e dalle chiusure, dai lutti e dalle ambulanze. Conviene dirlo subito: il disagio avvertito vedendola è tangibile, e conferma fin troppo ovviamente le ipotesi sulle mistiche divinatorie dell’arte, sulla sua capacità di intuire, in forma concretissima, i sommovimenti che non possiamo prevedere ci capitino. Ma Anna non è banalmente un racconto sulla pandemia, ipotizzata dalla creatività del suo autore, bensì una ricognizione nerissima sull’infanzia – argomento che sta molto a cuore ad Ammaniti – e sulle (non) regole di un mondo ferino, sottratto a quella piramide sociale che, limitando le libertà, permette la convivenza. Anna è, prima di tutto, l’ipotesi di una realtà senza adulti, che affronta un’emergenza che, nel nostro immaginario, dovrebbe suscitare solidarietà e responsabilità. Un mondo senza la presunta autorità dei padri, sfiniti dal loro ruolo formale ormai consunto, e senza la protezione delle madri, di cui resta uno scheletro adornato a festa e un manuale di istruzioni, spesso inutilizzabile, devoto a una normalità che ormai si è dissolta. Insomma: i ruoli canonici, su tutti quello dell’istituzione familiare, sono dissolti e stritolati da un’emergenza che cancella come una spugna l’intera impalcatura su cui il nostro mondo si basa.

 

 

L’universo di Anna è un luogo affidato alla natura, non certo benigna, insita nell’uomo prima di ogni compromesso di civiltà. Qui troviamo una società ormai inadatta a difenderci, sconfitta da una malattia – ma potrebbe essere un diluvio, un maremoto, un’invasione aliena – che non si è né prevista né contenuta. Anna quindi, in una cornice post-apocalittica da cinema di genere, riscrive l’invenzione di una dimesione nuova e crudele, un mondo non salvato dai ragazzini. I riferimenti sono vari, dall’homo homini lupus di Hobbes al Signore delle mosche di William Golding, ma l’originalità di Ammaniti oltre che tematica è estetica: un’immersione in una storia di sopraffazione – questa crudele favola teen – nella luce assordante di una Sicilia magnifica e ferina, sospesa tra natura ossessiva e barocco ingombrante. Anna, la protagonista, è una tredicenne costretta a crescere in fretta, dovendo badare al fratellino Astor: sorella nel ruolo di madre e quindi insofferente – come impone l’età – e responsabile – come impone la situazione. Quando il piccolo viene rapito da una banda, Anna è costretta a intraprendere uno sghembo “viaggio dell’eroe”, decisa a salvare il bambino a costo di perdere, letteralmente, una parte di sé. In Anna non ci sono buoni, ci sono invece molti cattivi involontari: perché quando la sopravvivenza è il fine, i mezzi possono essere spiacevoli e, si sa, alla sgradevolezza ci si adegua facilmente. Quello che stupisce di Anna è la sua continua fuga dal registro melodrammatico; Ammanniti manifesta anzi una sorta di ricerca dell’essenziale, una crudezza che improvvisamente si apre al magico e al mitico.

 

 

I canoni-trappola che affronta sono numerosi, ma ne esce sempre con una scelta in levare, con colpi di scena che durano lo spazio di un secondo, con una continua voglia – necessità? – di sperimentazione narrativa. La messa in scena è creativa, l’uso dei flashback consapevole e perfettamente ritmato, in grado di non togliere mai la centralità a questo universo in cui la pubertà è una condanna capitale e il senso di morte è modellato da una sete di vita. Anna è un catalogo di nefandezze che si apre innocente alla purezza, una storia nera che conserva con orgoglio barlumi di luce, un veicolo di pensiero nichilista che conosce la parola speranza. L’uso degli attori bambini è mirabile, la ricerca della luce nell’ombra cattura e fa fremere, le esplosioni di colore non sembrano mai dettate da un desiderio di apparire. Anna, in fondo, è una fiaba feroce che ingloba in sé un senso diffuso di tenerezza, che usa il paesaggio come un contesto e non come una cartolina, che è in grado di riflettere sulle pulsioni animali della nostra psiche non rifuggendo, anzi plasmando, l’uso degli archetipi (la Madre, la Morte, l’Ermafrodito). E che, soprattutto, ha il coraggio di uscire dai canoni nell’infondere un pensiero etico pessimista, calandolo in una narrazione decisa e piana che non lascia speranze senza toglierle. Una storia che sa che l’essere umano, alla fine, dà il meglio e il peggio di sé quando è giunto il momento di sopravvivere. Cioè ieri, oggi, domani, sempre.