Billie Jean King agli US Open del 1972 (courtey ufficio stampa La nave di Teseo)

Cambiare il mondo con il tennis: Tutto in gioco di Billie Jean King

Se si è coinvolti nel cambiamento,
bisogna essere
preparati a giocare una partita lunga.

Billie Jean King

 

È la voglia di migliorare il mondo, puntando a renderlo più giusto e aperto, a definire e permeare ogni singola pagina di Tutto in gioco. Un’autobiografia (La nave di Teseo, 20 euro, pagg. 677). La lunga e appassionante vita di Billie Jean King, campionessa di tennis nata nel 1943 a Long Beach, California: 39 titoli vinti di Grande Slam, fra singolare, doppio e misto, come ricorda Emanuela Audisio nell’intervista per “La Repubblica” che ha innescato questa lettura trascinante. Alla soglia degli ottant’anni, la giocatrice che nel 1972 ha dato vita alla WTA (Women’s Tennis Association, l’equivalente femminile dell’ATP) ha messo in fila tutti i momenti in cui ha diretto ogni sua energia per conquistare obiettivi, in campo e fuori, aprendo la strada ad atleti e persone comuni. Iniziando a palleggiare nei campi di gioco pubblici della California. Come il tennis club di Los Angeles, “a sud di Hollywood e dietro l’angolo rispetto ai Paramount Studios”. Californiana era anche uno dei suoi modelli, Alice Marble, l’avventurosa amica di Carole Lombard, dalle mille vite tra cui quella di consulente della DC Comics per le strisce di Wonder Woman. E anche Richard Nixon, che le telefonò direttamente per complimentarsi dopo che lei aveva incassato un premio di 100mila dollari. Gli aneddoti si sprecano, ovviamente, e fanno colore, ma in primo piano c’è sempre un’atleta dotata non solo di uno stile aggressivo a rete e di una memorabile volée di rovescio, ma anche di una grintosa spinta idealistica e di uno spiccato pragmatismo nella realizzazione degli obiettivi. Il tono di voce è quello della testimone oculare e attrice di molti cambiamenti, di chi ne conosce la strutturale lentezza e resistenza. Per cui lo apprezzeranno sia gli appassionati della racchetta sia chi è interessato alla storia dell’avanzamento dei diritti civili.

 

Emma Stone e Steve Carell in La battaglia dei sessi di Jonathan Dayton e Valerie Faris

 

Per chi non conoscesse Billy Jean King, un episodio eclatante della sua carriera fa da fulcro narrativo a La battaglia dei sessi di Jonathan Dayton e Valerie Faris (2017), prodotto da Danny Boyle. Film che ricostruisce il contesto di stridente disparità di accesso allo sport e compensi tra tennisti uomini e donne. Una sproporzione messa in luce nel 1973 dallo spettacolare match tra una trentenne King (interpretata da Emma Stone), che allora aveva già vinto cinque tornei di Wimbledon nel doppio, il primo a 17 anni, e l’ex campione Bobby Riggs (Steve Carell), di venticinque anni più grande di lei, deciso a farsi pubblicità lanciando la provocazione che una collega donna non sarebbe mai riuscita a batterlo. 

 

Billie Jean King e Bobby Riggs al Town Tennis Club di New York, conferenza stampa di annuncio della Battaglia dei Sessi, luglio 1973

 

Leggendo Tutto in gioco si capisce presto come quel match contro Riggs – per quanto fortemente simbolico e rimasto come punto di riferimento per molti – costituisca solo una delle tante tappe della lotta di King alle disuguaglianze, non solo di genere. Prima di quell’incontro stava già facendo sentire la sua voce, come altri atleti che si sentivano discriminati. Muhammad Alì col rifiuto di andare in Vietnam, il pugno chiuso col guanto nero sul podio che costò l’espulsione a John Carlos e Tommie Smith a Città del Messico nel 1968, stesse Olimpiadi boicottate per protesta anche da Kareem Abdul-Jabbar. In parallelo, King si stava impegnando perché le tenniste statunitensi avessero compensi pari ai loro analoghi maschi e un circuito proprio, da professioniste. Se ci è riuscita (e il film di Dayton e Faris ricorda anche le nove tenniste, le “Original 9”, che nel 1970 siglarono un contratto simbolico di un dollaro), lo ha fatto nonostante l’ostruzionismo dei colleghi e piuttosto grazie alla “eterogenesi dei fini” dello sponsor: le sigarette Virginia Slims, che battezzarono il primo torneo pro, preludio alla creazione della WTA. 

 

Le Original 9 e la nascita del circuito di tennis femminile professionistico, 1970

 

La sua militanza e consapevolezza politica vengono da lontano. Dai primi passi, in cui si accorge che, nello sport che ha scelto, le persone sono tutte bianche e di sesso maschile. Nell’osservare in campo Althea Gibson, prima atleta di colore a vincere un titolo del Grande Slam (Roland Garros, nel 1956) King scrive, parafrasando l’assunto disneyano: “Avevo appena visto quello che desideravo diventare. E se riesci a vederlo, puoi diventarlo”. Ma anche nell’avere come modello Arthur Ashe, nato a Richmond, Virginia, luogo di segregazione razziale. Il primo afroamericano a vincere gli US Open, nel 1968, circa cent’anni dopo la nascita di Wimbledon. La vita di Billie Jean si intreccia ad alcune tappe storiche nel contrasto al razzismo: dalla sentenza “Brown contro il provveditorato agli studi di Topeka” (1954) che dà il via allo smantellamento della segregazione scolastica, al Civil Rights Act (1964). Nel 1966 gioca a Johannesburg, pochi mesi dopo la condanna all’ergastolo di Nelson Mandela. Lo incontrerà di persona molti anni dopo, grazie alla sua attuale moglie, Ilana Kloss, ex tennista, nata in Sudafrica. 

 

con Ilana Kloss e Nelson Mandela a Johannesburg nel 2008

 

Tutto in gioco non è solo fluviale, dettagliata ricostruzione di classifiche, punteggi e tornei, rievocazione del gotha di mezzo secolo di tennis mondiale. Anzi, la cronaca sportiva si allaccia di continuo a questioni molto private e rilevanti. L’appoggio decisivo della famiglia, un lungo matrimonio, rispettoso e solidale, con Larry King, la scelta di non avere figli, il coming out, che fu più la conseguenza di un outing, i disturbi alimentari, l’analisi. E ovviamente, l’avvicinamento graduale, mai separatista, al femminismo, nelle sue conquiste più o meno eclatanti. Dall’Equal Pay Act, approvato nel ’63 e ancora in attesa di applicazione completa, alla possibilità per le donne di avere una carta di credito senza un uomo che garantisse per loro (ottenuta nel 1974), fino all’accesso alla contraccezione e all’approvazione del Pregnancy Discrimination Act, nel 1978. (“Lo stupro coniugale – essere obbligata o costretta con la forza dal proprio partner a fare sesso indesiderato – non venne criminalizzato in nessuno dei cinquanta Stati fino al 1993. Questo è ancora difficile per me da credere”).

 

Con Gloria Steinem

 

King crede nel fare squadra al di là dei generi, perciò ha aperto il suo libro con un consiglio strategico della giudice della Corte Suprema Ruth Bader Ginsburg: “Combatti per quello a cui tieni ma fallo in un modo che spinga gli altri a unirsi a te”. Cita in più punti anche la “Roe vs Wade”, sentenza che nel 1973 affermò il diritto delle donne a ottenere un aborto legale, di recente così inaspettatamente risalita alle cronache e clamorosamente depotenziata. Parlando degli anni Cinquanta, “Il messaggio standard che ricevevano le ragazze era Non. Rimanere. Incinta.”, ricorda l’autrice. Che pure abortì e si ritrovò suo malgrado in una lista di donne famose che avevano interrotto la gravidanza, pubblicata da “Ms.”, rivista creata da Gloria Steinem. Mentre King e il marito fondarono e finanziarono, nel 1974, il primo periodico dedicato agli sport femminili, WomenSports. “Negli anni ’70 solo 25 donne nei 1700 giornali USA si occupavano di sport. È difficile rendere l’idea di quanto fosse opprimente”. Il femminismo per la tennista è stato, tra le tante altre cose, anche lo sprone a fondare la Women’s Sports Foundation nel 1974, associazione non profit di supporto alle giovani atlete basato sul Titolo IX, la legge federale che nel 1972 ha imposto pari opportunità per uomini e donne nelle istituzioni finanziate a livello federale. Con la combattività di chi si gioca tutto a ogni punto, King è stata anche la prima atleta statunitense a riconoscere apertamente una relazione omosessuale, atto che nel 2005 ha definito “la lotta più grande della mia vita”. Nel raccontarsi analizza il pregiudizio altrui ma anche l’autosabotaggio, scrivendo come chi non ha imparato, se non in età molto adulta, come liberarsi dai condizionamenti esterni e dalle aspettative delle persone più vicine. Parte del suo impegno è condiviso con l’amico Elton John, nella raccolta fondi sulla ricerca sull’AIDS, in particolare dopo la morte di Arthur Ashe. “Oggi mi emoziono quando vedo adolescenti LGBTQ+ che pensano sia normale essere apertamente ciò che sono. A volte sono così felice da scoppiare a ridere. Adoro come si autoidentifichino e si siano appropriati della parola queer, così che non è più un insulto”. 

 

Nel 2009 con Barack Obama che le conferisce la Presidential Medal of Freedom, massima onorificenza del governo degli Stati Uniti

 

Tutto in gioco testimonia da un punto di vista interno una nazione dilaniata dal razzismo endemico e da una scia di omicidi decisivi per la storia politica statunitense: le quattro ragazze uccise dal Ku Klux Klan a Birmingham, Alabama; Medgar Evers, John Fitzgerald Kennedy, Malcolm X, Martin Luther King, Robert Kennedy, oltre alla sistematica, cieca condanna a morte di generazioni in Vietnam. Sarebbe presuntuoso cercare di riassumere tutte le battaglie per la diversità, l’equità e l’inclusione rievocate in questo corposo e avvincente autoritratto di pioniera. Gli incontri di una vita, gli aneddoti sul campo, le osservazioni tecniche, le cause sostenute, le lezioni imparate quasi sempre dalle sconfitte e l’energia data dalla consapevolezza di essere continuamente chiamata a ingaggiare nuove sfide. Leggerlo nell’era di Venus e Serena Williams e Megan Rapinoe, Naomi Osaka e Simone Biles, ma anche di Greta Thunberg e Donald Trump, del Me Too e del Black Lives Matter, è un luminoso ripasso di storia e un esercizio di rimessa a fuoco e in prospettiva di un lungo e ostinato cammino verso l’uguaglianza. In cui ogni parola invita chi legge a fare la propria parte. 

 

(Fotografie ufficio stampa La nave di Teseo)