La cugina del prete, di Wes Craven: sogni di libertà e corpi hard

“Lavorare con il porno era una specie di apprendistato per entrare nel giro. […] Tutti, in qualche modo, erano collegati a quel business, perché coinvolgeva il piano psicologico e sociale”. Nel documentario del 2005 Inside Gola profonda, Wes Craven ricorda così i suoi trascorsi nel genere ufficialmente più “nascosto” del cinema americano (pur precisando che “ne ho fatti, non dirò quali”), e spesso le biografie hanno eluso il suo reale coinvolgimento, limitandosi ai titoli che lo vedevano più che altro nel ruolo di montatore o assistente. Nel 1975, invece, tre anni dopo l’esordio con L’ultima casa a sinistra, fortunato al botteghino, ma che gli aveva marchiato addosso la fama del regista “cattivo”, ecco Craven alla regia di un hard, firmato con lo pseudonimo di Abe Snake, ora riportato in auge dall’uscita DVD di Opium Visions. Il titolo è quello del passaggio nelle nostre sale, La cugina del prete, chiaramente in grado di ammiccare alle varie “pruderie” parentali che tanta curiosità suscitavano nel pubblico dell’epoca. Non di cugini si tratta, però, poiché la storia ruota intorno al legame incestuoso fra Angela e suo fratello Peter: lui, per placare i moti dell’animo, si rifugia in seminario indossando l’abito talare, lei compie invece un percorso fatto di esperienze sessuali al limite, in un andirivieni spesso visionario fra realtà e sogno, che anticipa le tematiche poi rese celebri dagli horror del regista, Nightmare in primis.

 

“Tutta la mia giovinezza si era basata sulla soppressione delle mie emozioni”. Con queste parole, che sintetizzano il difficile percorso personale di un’infanzia caratterizzata dal proibizionismo religioso imposto dalla madre, Craven ci fornisce la chiave di lettura dei suoi esordi e la possibile interpretazione dei temi forti presenti in quest’opera: l’incesto e l’annullamento dei valori imposti dalla religione si situano infatti in un clima di sovvertimento delle regole, figlio di un’America disorientata dalle rinnovate consapevolezze, umane e sessuali, delle generazioni che iniziano ad affacciarsi all’età adulta, portando con sé tutta la problematicità di un mondo vissuto con l’immediatezza della propria fisicità. Si veda in tal senso il prologo con gli astanti che danzano festosi in una tipica atmosfera hippy, sfoggiando la propria nudità con la naturalezza di chi si iscrive in un sistema di valori inedito e ormai lontano dalle regole sedimentate. La società, però, non resta a guardare e risponde con un clima di sopraffazione e violenza che si iscrive, ancora una volta, nel corpo (“Le immagini più orribili dei miei film si riferiscono sempre e soltanto […] alle due cose più importanti per chiunque: la casa nella quale si è cresciuti e quell’altra casa che è il proprio corpo. E continueranno ad essere questi i miei territori di esplorazione. Soprattutto il corpo, quando è alla mercé delle nostre mani e di quelle degli altri”). Lo sguardo del regista, come poi accadrà in tutto il resto della sua produzione, si concentra sul ruolo della donna e sulle composite sensazioni che evoca nello spettatore, fra desiderio, pietà e un senso di continua violazione capace di interessare sia l’anima che il corpo. Lacerata nei sentimenti e dannata dalla sua morbosa attrazione per il fratello, Angela è anche vittima delle sopraffazioni altrui, in un percorso che costituisce sia un tentativo di fuga e liberazione affine a quello compiuto dalle scream-queen dei futuri horror craveniani, che al destino ingrato delle protagoniste de L’ultima casa a sinistra – la scena in cui Angela è costretta da alcuni malintenzionati a urinare forzatamente, riprende una analoga vista nel film precedente, e diventa quasi un marchio di fabbrica della violenza psicologica che si iscrive sul corpo attraverso le sue secrezioni. L’andirivieni fra realtà e sogno – amplificato nell’edizione italiana da flashback ottenuti con inserti di altre pellicole – segna parimenti il tentativo di definire una verità “altra”, in cui Angela possa vivere il suo amore proibito, liberata ormai dai suoi sensi di colpa: ma è anche un segno ulteriore della frammentazione della realtà raccontata dal regista e filtrata attraverso uno sguardo complice nei confronti di una visione al femminile del mondo. In effetti, a colpire soprattutto ne La cugina del prete è la convinzione degli assunti, che si traduce però in un tono ambiguo, di chi semina domande più che cercare risposte, consapevole forse che l’autorialità pure rivendicata a ogni passo, debba fare i conti con le convenzioni del genere (si pensi all’immancabile orgia finale). Il regista si ritaglia il ruolo, parimenti ambiguo, dell’uomo dei fuochi d’artificio, osservatore e figura ricorrente, forse il Diavolo, forse un’incarnazione di quel sentimento di libertà che si cerca empaticamente di preservare attraverso il dramma della protagonista.

 

 

L’edizione DVD propone il film nella sola edizione italiana, la più completa in circolazione: peccato non aver inserito anche quella originale, per cogliere con più attenzione le differenze nel montaggio e nei dialoghi, comunque riassunte puntualmente dai contributi presenti in un pieghevole allegato alla confezione. In ogni caso un’operazione lodevole, rispettosa di uno dei talenti più versatili e rimpianti del cinema americano. (Le citazioni testuali, tranne dove diversamente indicato, sono tratte dal libro Wes Craven: Il buio oltre la siepe, di Danilo Arona, Falsopiano 1999).