La regina degli scacchi: un percorso accidentato fra l’arroganza e la fragilità del talento

Beth Harmon ha solo nove anni quando, a metà degli anni Cinquanta, un incidente automobilistico non esattamente fortuito le porta via la madre. Il padre è lontano, chiuso nel privato della sua “vera” famiglia e di questa piccola orfana non sa e non vuole saperne nulla. Beth si ritrova così in un orfanotrofio cattolico, apparentemente accogliente, che cerca di rasserenare le piccole ospiti con dosi massicce di pilloline verdi, un tranquillante che diventa presto il migliore amico della bambina. Ma è un altro l’incontro destinato a cambiare la sua vita: quello con il bidello Mr. Sheibel e, attraverso di lui, con il gioco degli scacchi. Beth si rivela una predestinata e La regina degli scacchi segue la sua ascesa vertiginosa – non priva di numerose cadute – verso un successo sempre maggiore, verso una fama che stordisce, verso un’apparente realizzazione di sé che copre a malapena il suo animo sempre e da sempre ferito, messo a tacere faticosamente da una routine di pillole e alcol. La miniserie Netflix creata da Scott Frank adattando un bel romanzo di Walter Tevis – autore di titoli poi divenuti film come Lo spaccone, L’uomo che cadde sulla terra, Il colore dei soldi – ha un cuore classico: è un racconto di formazione che vede l’affermazione, seppur dolorosa, di una giovane donna, per di più orfana, in un mondo tradizionalmente maschile.

 

 

Descrive un percorso di ricerca e costruzione del sé allo stesso tempo accidentato e lineare, mostra l’arroganza del talento e la fragilità dell’insicurezza, l’affinamento del gusto e la seduzione della frivolezza, la testardaggine inscalfibile e la tremebonda paura di non essere all’altezza delle proprie aspettative. Ma non bastano la sua linearità emotiva e l’essere una serie “giusta al momento giusto” per giustificare l’attenzione, il successo e, come sempre accade nel gioco critico di azione/reazione, l’astio e l’antipatia che La regina di scacchi ha suscitato finendo per mettere insieme un numero incredibile di spettatori in ogni parte del mondo. A determinare la popolarità della serie è stata una calibrata miscela di elementi che, se a tratti possono sfiorare la furbizia compiacente, compongono un perfetto prodotto medio da divorare nelle tristi serate di pandemia. L’astinenza da cinema ci fa troppo spesso dimenticare quanto la serialità televisiva resti – e continuerà a rimanere – un oggetto “altro” rispetto a quello prodotto, pensato e destinato alla sala. Non solo per le modalità di fruizione, ovviamente, ma per le peculiarità narrative ed estetiche del tutto differenti. È quindi un’operazione inconsistente e pleonastica voler smontare un prodotto come questo per la sua progressione didascalica, per la sua morale manifesta, per la sua narrazione scandita e programmatica: La regina degli scacchi è esattamente quello che deve essere, con i suoi pregi e le sue ruffianerie, con l’impeccabile successione di momenti di climax che discende dalla tensione tipica dei film sportivi, di cui è una variante immota, e l’attenzione quasi feticista ai particolari.

 

 

La ricostruzione d’epoca è patinata e magnifica, gli anni Cinquanta e Sessanta non apparivano così belli da guardare in tv dai tempi di Mad Men: abiti e carte da parati, neon e insegne brillano sul piccolo schermo accompagnandoci nel viaggio nella mente di Beth. La colonna sonora occhieggia al repertorio d’epoca inserendo qua e là momenti classici un po’ abusati (Satie, ormai immancabile); la fotografia odora delle riviste d’epoca; gli abbinamenti cromatici dei vestiti di Beth, che impara il piacere di vestirsi e truccarsi parallelamente alla realizzazione del proprio dono, sono una tavolozza di sfumature come le variazioni del suo taglio di capelli; il montaggio dona alla storia un ritmo scandito dal metronomo, alternando sapientemente sospensioni e suspense. Alcune scelte registiche appaiono ridondanti ma la qualità tecnica generale è fuori discussione. A questo si aggiunge la scelta di un cast calibrato e convincente (in cui spicca Bill Camp, già ammirato nella miniserie HBO The Night Of…, nel ruolo del bidello/mentore, modello di scacchi e di vita) al centro del quale brilla la protagonista Anya Taylor-Joy, cuore pulsante della serie, motore nervoso che suggerisce la volubilità di ogni stato d’animo con implacabile economia espressiva. La regina degli scacchi è in fondo il racconto della crescita di una giovane donna, che passa dai corridoi scuri di un orfanatrofio alle stanze d’albergo lussuose di Parigi o della Mosca sovietica senza perdere d’occhio il suo obiettivo, pur cedendo alle deviazioni della sua innata fragilità. Una donna degli anni Sessanta con tratti evidenti di modernità, un’eroina in cui non è facile identificarsi ma per cui è impossibile non parteggiare. E allora vale la pena, invece di soppesare con il bilancino quanto “cinema” contenga, perdersi nel gusto quasi di appendice del racconto, negli occhi liquidi di Beth, negli sguardi lanciati dal basso verso l’alto da dietro lo schermo di una scacchiera (unica protezione, unica casa che non l’abbandona), nella sua voglia di vincita e di rivincita, nel meccanismo quasi ipnotico di un gioco che è, prima di tutto, un corpo a corpo con se stessi.