Little Stevens: un fiume di rock’n’roll

Little Steven, Stevie Van Zandt, all’anagrafe Steven Lento dal cognome della mamma nata da un calabrese e una napoletana, «nonna Lento» come viene indicata nelle dida delle fotografie. Padre biologico sconosciuto, papà adottivo William Van Zandt, un ex marine addirittura, «repubblicano pro Goldwater» però amato dal piccolo Steven, nonostante il suo destino sarà segnato da una militanza a sinistra mai venuta meno. È l’attacco di Memoir La mia odissea, fra rock e passioni non corrisposte, l’autobiografia di Stevie Van Zandt (edizioni Il Castello, traduzione di Sara Boero, euro22, pag.416), musicista, attore, chitarrista della E Street Band e produttore musicale specializzato in arrangiamenti (per esempio, come noto, questo; o questo, clamoroso). Un personaggio difficile, affascinante, poliedrico e caratteriale (la pazienza quasi minacciosa del sangue calabrese e l’irruenza di quello napoletano: lo dice lui eh…), molto esplicito nei giudizi positivi e non, soprattutto non (riporta nel libro una telefonata con Frank Zappa durante la quale si mandano ferocemente affanculo, Zappa è siciliano by the way). Anche un personaggio che ha subito la luce degli altri, forse a partire proprio dal padre, all’ombra di più di un Boss. Molti errori nel percorso, tutti riconosciuti in questo libro schietto, ritratto d’artista e di un’epoca clamorosa, in particolare quella dell’attività musicale. E streeter della prima ora, amico di Bruce Springsteen da oltre mezzo secolo, la condivisione dei sogni adolescenti di rock’n’roll, le prime band e le prime canzoni. Il culmine del loro rapporto è The River (1980) da Stevie coprodotto.

 

 

Si capisce come sia quello, e solo quello, il punto di partenza e di ritorno della sua carriera anche live (considera i due tour relativi al disco – 1980/81 e il The River Tour del 2016 – non solo i migliori suoi ma i migliori di Bruce). Dopo The River lascia la band e gli altri fanno fatica a spiegarselo, lui si sente un po’ schiacciato, vuole andare avanti da solo, commette il primo e più significativo errore della sua vita professionale. Ci vorrà un po’ per ricucire. Nel frattempo diventa Little Steven in onore di uno dei suoi idoli, Little Richard, rocker pastore battista che officerà il suo matrimonio con l’attrice Maureen Van Zandt, da quel momento presenza fondamentale nella sua vita. Stevie abbraccia cause umanitarie e politiche, nel libro ricorda le nefandezze di Reagan che pose il veto presidenziale all’embargo anti apartheid contro il Sudafrica voluto dal Congresso americano e votato anche da senatori repubblicani, si è segnato tutto e non fa sconti a nessuno. A volte sembra eccessivo nell’accreditarsi fatti e accadimenti. Stando a quel che scrive, sarebbe merito suo se: Nebraska è uscito acustico, esiste Silvio Dante (nel senso che la parte l’avrebbe scritta lui), James Gandolfini è Tony Soprano, Jake Clemons ha preso il posto dello zio Clarence per tacere delle soluzioni politiche e dell’affrancamento della Norvegia dal suo oblio mediatico, grazie al successo di Lilyhammer. Qualcosa di vero ci sarà. Di sicuro è autentica la passione musicale, e ovviamente la competenza. «Io misuro l’epoca del rock da Like a Rolling Stone, 1965, alla morte di Kurt Cobain. Trent’anni di pura gioia universale». I suoi dischi solisti hanno avuto alterne fortune, una sola hit (Bitter Fruit: leggete il testo) però ha prodotto e quasi interamente scritto uno degli album della mia vita, lo preferisco anche a qualcuno di Bruce: Better Days di Southside Johnny & the Asbury Jukes (1991), che non fu un successo solo perché la gente è ignorante. Della sua discografia invece il migliore secondo me è il penultimo, Soulfire (2017). Sentite questa canzone che capolavoro. Ama l’Italia non solo per le sue origini, si dice fan di Adriano Celentano definito il suo doppelgänger per questa cosa qua: e racconta del suo miglior concerto con i Disciples of Soul a Roma. Ci sono soprattutto le persone, nel libro di Stevie. Quelle incontrate, amate, detestate. Praticamente il mondo musicale degli ultimi quarant’anni. E spesso Springsteen deus ex machina delle sue scelte, indirettamente (come nel caso dell’adieu) o direttamente, come quando durante la preproduzione dei Soprano lo chiama per dirgli: ricominciamo. E lui: ok.