Marsiglia 73 (Sellerio Editore, pag.408, euro 15) è il sesto romanzo di Dominique Manotti con protagonista il giovane commissario della brigata criminale Théo Daquin. In Italia alcuni suoi libri, compreso questo, sono pubblicati da Sellerio, e il migliore resta il terzultimo, Oro nero (2016). Marsiglia 73 è però più importante se lo poniamo in una prospettiva prettamente storica. Ci arriviamo ma occorre inquadrare l’autrice. Dominique Manotti, classe 1942, esordisce come scrittrice di polar nel 1995, prima era stata insegnante di storia al liceo e soprattutto, a lungo, sindacalista. Esperta di storia economica della Francia tra XIX e XX secolo, è anche una riconosciuta studiosa di Émile Zola, il suo modello di ricerca sociale e di rappresentazione letteraria. Marsiglia 73 racconta un’inchiesta strana del commissario Daquin e dei suoi due bracci destri, gli ispettori Delmas e Grimbert, quest’ultimo un mezzo maltese che si muove benissimo tra sbirri corrotti, giornalisti infiltrati e criminali della vecchia guardia. Il nuovo capo della polizia giudiziaria vorrebbe un po’ neutralizzare il trio facendoli investigare per procura (il caso è dei colleghi di Tolone) sui potenziali eversivi dell’UFRA (Union des français repliés d’Algérie). Negli anni 70 i pieds noirs (francesi d’Algeria) a Marsiglia (970 mila abitanti all’epoca) erano 100 mila, tutti incazzati. E altrettanti i corsi, incazzati pure loro, spesso con i pieds noirs visti un po’ come usurpatori di spazi sociali e persino criminali, storicamente “loro”. E poi ci sono i nordafricani, algerini ma non solo, veri protagonisti della nostra storia. (In apertura l’immagine del funerale, il 16 dicembre 1973, degli algerini vittime di un attentato al Consolato di Algeria).
Un giovane beur viene trucidato nei quartieri nord, oltre frontiera come dicono poliziotti e piedi neri, e non è un regolamento di conti tra magrebini come la narrazione istituzionale subito impone. Daquin se ne accorge, ma lui a Marsiglia ha margini di movimento limitati per due motivi, lì inauditi: è parigino e gay. Può nascondere l’orientamento sessuale ma non lingua e atteggiamento parisiens, quindi all’Évêché, che sta alla città focese come il Quai des Orfèvres alla capitale (la questura, insomma), lo trattano tutti come un coglione da cui guardarsi le spalle. Potrebbe anche essere la sua forza. Il tutto accade in uno scenario politico molto particolare, successivo all’entrata in vigore della famigerata circolare Marcellin-Fontanet voluta dal governo nel 1972, che in pratica consentiva l’ingresso e la residenza in Francia agli stranieri solo se in possesso di contratto di lavoro e alloggio, una direttiva che trasformò l’86% (dati ufficiali) degli immigrati in sans-papiers, categoria nata proprio allora. A Marsiglia e dintorni le proteste dei lavoratori magrebini contro la circolare sono toste, la risposta razzista altrettanto, anzi di più: pestaggi e morti ammazzati. Manotti nel milieu della città si muove benissimo, inventa personaggi clamorosi come il Gros Marcel, Marcello il grosso, brigadiere capo della PU (polizia urbana: alla geografia dei vari corpi di polizia è addirittura dedicata una legenda finale) che ha il compito da anni di mantenere l’equilibrio tra le parti sociali e etniche in ebollizione. Il difetto del libro è forse che la parte storica, accuratissima, fagocita a tratti quella romanzesca, facendo percepire certi risvolti drammatici come non del tutto risolti o non del tutto sfruttati nel loro potenziale. Ma sono dettagli, specie se interessa lo scenario di una città come Marsiglia che, nel 1973 come nel 2022, resta unica al mondo per complessità, ferocia, umanità, degrado e bellezza. Dalle storia di Daquin non sono stati tratti film, però Manotti ha ispirato Une affair d’État di Éric Valette (2009) che non è male.