L’armamentario classico c’è tutto, a iniziare da una leggenda metropolitana che ruota attorno a una casa stregata: bussare per due volte alla sua porta, significa attirare l’attenzione di uno spirito maligno che non darà più pace alle sue vittime. Su questa struttura si può poi innalzare una dinamica da horror più moderno, post-Babadook, con il problematico rapporto madre-figlia che vede la prima uscita dal tunnel della dipendenza e ora pronta a prendersi cura della seconda, che però non le perdona di averla abbandonata anni prima. Lo sguardo è in effetti classico e al contempo moderno, e non potrebbe essere altrimenti considerando l’origine britannica, terra che ha sempre fatto fruttare il rapporto con la tradizione esoterico-fantastica, producendo al contempo forme non prive di una loro originalità. Il regista Caradog James in effetti è un tipo cui piace sperimentare, ha deciso di passare all’horror dopo aver notato come alcune scene particolarmente cupe e tese del suo precedente The Machine avessero colpito il pubblico, e questa sua versatilità si nota nella capacità di stendere un racconto al femminile con partecipazione e una bella composizione visiva. Lo aiuta in questo senso il lavoro con le attrici, la veterana Katee Sackhoff, che punta su un personaggio fragile e diverso dai suoi più consueti, e la più giovane Lucy Boynton, attratta dal lato oscuro di una vittima che è insieme anche capace di provare rancore. In mezzo, come da titolo, ci sono le porte, o meglio gli spazi e gli angoli di case che denotano uno strano gusto per il decor, come in una realtà a vasi comunicanti dove ogni spazio non coincide con uno omogeneo, ma ne genera altri inediti e strane commistioni: il laboratorio di Jess/Sackhoff sembra ricavato dalla navata di una chiesa, con tanto di finestrone a mosaico, e la casa maledetta, con il suo aspetto decadente che odora di millenni, è nei pressi di un modernissimo cavalcavia, sospesa in un luogo periferico eppure centrale. In questa realtà ondivaga imperversa il contenzioso fra Jess, madre reale che cerca di ribadire il proprio ruolo, e la Baba Yaga, l’entità malvagia che diventa una proiezione al negativo del senso di oppressione provato dalla figlia Chloe, sorta di retaggio distorto delle dinamiche parentali classiche. Una creatura che agisce negli interstizi fra la luce e l’ombra, ma nel suo gioco di vedo/non vedo è splendidamente fisica, ossea, disarticolata e costituisce l’ennesimo capolavoro interpretativo di Javier Botet, mimo spagnolo già comparso in La madre, Crimson Peak, Alien: Covenant e prossimamente in IT, ormai diventato un autentico corpo-fantasy del cinema moderno insieme al collega Doug Jones.
Ciò che non aiuta è la scrittura, o meglio la volontà a un certo punto di lasciar elaborare un plot thriller che tenta di sparigliare le carte, inserendo false piste e rivolgimenti che stonano con una regia così pervicacemente concentrata sul lavoro di spazi e atmosfere. In particolare a farne le spese sembra essere proprio la Baba Yaga, quando la sua portata mitologica e fantastica sembra a un certo punto sacrificata alla logica dei colpi di scena (con tanto di possibile diniego sulla sua natura). Certo, resta affascinante il gioco di equilibri fra il non detto e la concretezza del corpo violato dalla mostruosità, ma a darci il maggior sollievo è il ritorno nei binari più schiettamente orrorifici del finale. Da poco giunto in Italia grazie alle edizioni Blu-Ray Disc e DVD di Midnight Factory, Non bussate a quella porta è proposto con un transfer in grado di restituirne le atmosfere oscure, e un making of (anche disponibile in varie featurette singole) che esplora i vari aspetti della lavorazione. Interessante anche il booklet con letture critiche che contestualizzano il film nella storia del genere, evidenziando modelli e possibili parentele.