Scream di Craven e l’apoteosi del metacinema nel saggio di Roberto Pugliese

Wes-Craven-b Per ricordare il grande Wes Craven pubblichiamo un estratto dall’ottimo saggio di Roberto Pugliese Wes Craven – L’artigiano della paura (Lindau, pag.216 euro 22; eBook euro 15,99). Il pezzo analizza, con precisione e acutezza, la serie Scream e le sue numerose ricadute culturali e cinematografiche. Pugliese ci accompagna alla scoperta di un cineasta tardivo e classico «tuttofare» hollywoodiano, autore di un cinema disturbato e disturbante, nel quale sono messe a nudo le contraddizioni della società americana. Per Pugliese Wes Craven è:” Ben saldo ai comandi di una consolle artigianale della paura che solo il regista sa come manovrare. Una Weltanschauung attraverso l’horror che il filosofo ed epistemologo Wes Craven ha lucidamente messo a punto in 40 anni, un film dopo l’altro, un delitto dopo l’altro, uno spettro dopo l’altro. Un incubo dopo l’altro”.

 

 

Drew Barrymore in Wes Craven's "Scream" L’intero ciclo di Scream, che in realtà può abbastanza agevolmente venir letto come un unico film suddiviso in capitoli interdipendenti, si appoggia e si sviluppa su questo intricatissimo e nevrotico reticolato di apparati, nozioni, suggestioni, memorie e gag. La componente comica stavolta non è delegata da Craven ad altri ma assunta in prima persona, e si svela complementare alla mobilissima e concentrica scrittura di Williamson. Gli omicidi piu efferati avvengono in un dinamismo caotico, cosparso di gag da cinema muto, cazzottoni, colpi in testa e goffi inciampi, in set ristretti e affollati di oggetti-trabocchetto, dove l’ingegneria sinfonica di Marco Beltrami (il giovane compositore lombardo trapiantato a Hollywood, allievo di Jerry Goldsmith e Luigi Nono e collaboratore assiduo di Craven nell’ultimo quindicennio) si esplica in tutta la propria terroristica e sperimentale potenza anche attraverso i celebri stinger, i fulminei e violentissimi effetti di soprassalto sonoro sincronizzati con gli agguati. Un mondo tutto sommato ridicolo e imperfetto, ma che, proprio perché claustrofobicamente delimitato a piccoli ambienti, stanze, garage, scale interne, bagni, si rivela ancora piu minaccioso; e filmato con un montaggio onnisciente, che gioca su dirette e differite, sull’identificazione e l’estraneità dello sguardo, e sull’impietosa satira a una cultura di massa (cui Craven accondiscende ma che disprezza profondamente) che scarica moralisticamente altrove, ad esempio sul cinema horror, le proprie colpe e irresponsabilità.

 

 

davidarquettecourteneycoxscreamIn questo congegno cosi complicato ma anche futile e tutto sommato ≪lieve≫, spicca la drastica scelta nella descrizione di alcuni personaggi. Sidney, orfana di madre, barbaramente uccisa, che le riappare come spettro in sequenze degne della Hammer Films, si porta dietro le stigmate di un’infelicità e di una solitudine quasi bergmaniane, ben espresse nello sguardo orientaleggiante e a tratti velato della Campbell. Invece a Gale Weathers, giornalista caricaturalmente aggressiva, invadente e cinica, e al vicesceriffo, poi sceriffo, ≪Linus≫ Riley, pasticcione e bamboccione, compete la funzione prima comica poi sentimentale – quindi giallo-rosa – con lo sviluppo di una love story fra i due, che nasce in leggera differita rispetto al legame e al matrimonio (molto sospettato di trovata pubblicitaria) fra i due attori, Courteney Cox e David Arquette. Discorso a sé per la ≪maschera≫ di Ghostface, il killer, che a prescindere dai vari attanti che la indossano nei quattro film, mantiene caratteristiche invariate. Mutacico, onnipresente con doti quasi soprannaturali (ma sempre poi spiegate razionalmente), implacabile ma vulnerabilissimo e spesso impacciato nei movimenti, esibisce un look nordico non solo nel volto, associato al celebre dipinto L’urlo di Edvard Munch, ma ancheel mantellone nero cosi simile a quello indossato da Bengt Ekeroth-La Morte in Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1957, di Ingmar Bergman). Un costume che nasce come accessorio carnevalesco di paese, chiamato ≪Father Death≫(Darth Vader?), e diviene a partire dall’incipit di Scream 2 gadget planetario, esattamente come era accaduto a Freddy Kruger, stavolta però con un preciso scopo di mimesi autoriproduttiva. Il killer vero si mescola tra la folla dei suoi simili, utili idioti massificati, per colpire la scettica e ipercritica Jada Pinkett Smith, che voleva ≪interagire≫ con lo schermo e si trovera a essere martirizzata davanti a esso, fra il tripudio (ignaro?) dei presenti.

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In realta, il ciclo parallelo di Stab [Squartati], che Williamson, poi Ehren Kruger (nessuna parentela…) e infine di nuovo Williamson immaginano sorgere in parallelo ai vari Scream, è l’acrobatico pretesto diegetico e moltiplicatorio che serve a Craven per demolire ancor piu radicalmente le regole del gioco. Se i moventi dei vari killer che impersonano Ghostface sono quasi sempre drammatici e personali, familistici, a partire dal desiderio di vendetta iniziale di Billy (Skeet Ulrich, sorta di clone di Johnny Depp) coadiuvato dall’amico idiota e succube Stu (irresistibile Matthew Lillard, attore-feticcio di John Waters), per proseguire con madri infuriate, figli abbandonati, fratelli misconosciuti ecc., il contraltare dello sfruttamento commerciale dei misfatti di Woodsboro immaginato nella serie Stab, e negli attori che di volta in volta incarnano i personaggi,sconfina – soprattutto in Scream 3 (id., 2000) e 4 – nel demenziale puro e semplice e nell’aperta derisione sia dello spettatore che della sua dipendenza dalla compulsiva serialità hollywoodiana. I tre ≪finti inizi≫ di Scream 4, sorta di matriosca diegetica, ne sono la baldanzosa riprova, compreso l’infilzamento repentino di una delle due ragazze in Stab 7 perche troppo ciarliera, proprio come accade all’importuno vicino di posto di Lars von Trier nel frammento da questi firmato per il collettivo Chacun son cinéma [A ciascuno il suo cinema, 2007]. Attraverso varie tappe, horror e derivati sono ormai transitati dall’epoca delle videocassette a quella di Facebook e Twitter, degli smartphone e dei massacri via web; Sidney Prescott e diventata imprenditrice delle proprie disgrazie e di quella vocazione di Cassandra resa così esplicita nell’inserto teatrale di Scream 2 che fa dell’autoironia spinta sull’efficacia dei sequel; Gale Weathers si è umanizzata e ≪Linus≫ è diventato meno inetto, a prezzo di prove fisiche quasi estreme. Le citazioni si fanno sempre piu selettive: se in Scream 2 un cameraman tira addirittura in ballo Le facce della morte (Faces of Death, 1978, di John Alan Schwartz), discusso ed equivoco mondo-movie ultraviolento che Craven certo conosce, varie apparizioni e la relativa, incalcolabile, quantita di allusioni hanno testimoniato la nostalgia per una stagione irripetibile, come la partecipazione del regista di impronunciabili exploitation movie John Milton, ossia Lance Henriksen, o il gelido cammeo autolesionista di Carrie Fisher, entrambi in Scream 3. Insomma la serie (le serie?), fra esaltazioni metalinguistiche ormai incontrollabili, maratone horror, dirette in streaming e apoteosi della videocamera a mano, ha toccato l’apice della propria autoreferenzialita. Ma mentre i quiz per fan si affinano (quale teenager, oggi, puo aver sentito parlare di L’occhio che uccide, Peeping Tom, 1960, di Michael Powell?) e i cadaveri si accumulano in un’apoteosi meccanica e ludica, quel che torna a emergere e la cupa, pessimistica e intransigente visione del mondo dei giovani. Quest’ultimo è riassunto, qui, nell’antagonista Jill (Emma Roberts2) di Scream 4, disposta a tutto – compresa una spaventosa messinscena masochista – pur di avere il suo momento di celebrità: un ruolo di eroina che, suo malgrado, la ragazza avrà, e che il ≪moralista≫ Craven stigmatizza con tutta la potenza del proprio cinismo. Lo stesso con il quale gioca con i media, ora annunciando ora smentendo un poco plausibile Scream 5, ma preparando d’altro canto una serie televisiva, potenzialmente senza fondo, sull’intera saga.

 

 

(Per gentile concessione di Edizioni Lindau)