Su MUBI Il realismo fittizio di Theo Angelopoulos (parte 1)

In occasione dell’omaggio che MUBI dedica a Theo Angelopoulos, Tonino De Pace analizza le scelte teoriche del suo cinema. Il saggio “Il realismo fittizio di Theo Angelopoulos” viene pubblicato in due parti.

 

In un saggio di una ventina di anni addietro dal titolo Il volto del ritorno G. Bakoghiannopoulos, scriveva che «Angelopoulos inizia con un avvenimento reale. Adopera pezzi interi di realtà e gli strumenti del cinema diretto […]. Tuttavia questo realismo è fittizio». Pensiamo che per una reale analisi del lavoro di Angelopoulos, smisurato nonostante la non particolare prolificità, si debba partire dalle scelte teoriche che hanno segnato il suo cinema legato a una originaria identità greca, a un persistente senso del mito come sembiante della storia che attraversa il suo cinema e del mito stesso che sa fondersi e diventare paesaggio nel quale i suoi personaggi agiscono e dentro il quale sono accompagnati verso il loro destino. Il cinema del regista greco, partendo da queste fonti, diventa cinema dominato dal destino nella migliore tradizione culturale della Grecia.

I suoi personaggi sono avvolti dalle nebbie della storia e il regista greco sembra si sia dato il compito di tirarli fuori da quelle nebbie per portarli alla luce del sole, mostrandoli nella loro dimensione mitica che convive con il suo cinema. è la cifra stilistica che segna il suo cinema e sotto questo profilo ha ragione l’autore greco quando definisce realismo fittizio la realtà dei suoi film.

 

Ricostruzione di un delitto (1970)

La sua relazione con la storia comincia sin dal suo esordio. Ricostruzione di un delitto del 1970 non a caso si rifà a un fatto di cronaca. Girato in una prospettiva pienamente realistica, cronachistica, anzi nella quale si scorgono le connotazioni sociali che da lì in poi avrebbero attraversato i suoi film come componente essenziale di un cinema che comunque nasceva immediatamente dopo la drammatica epoca dei Colonnelli. Da questo film in poi il regista greco ha sempre di più centrato il suo lavoro proprio sulla storia vista come ombra incombente sui personaggi per sempre legati a quel destino personale. In questa visione il suo cinema non è mai riproduzione degli eventi, quanto piuttosto forma rappresentativa della storia con il suo bagaglio di indecifrabilità che si traduce, in quelle forme ellittiche che i film di Angelopoulos ci hanno abituato a vivere. Con l’andare del tempo il suo cinema ha accentuato questo lavoro di forte connotazione storica a dispetto di un progressivo abbandono del realismo. La storia nel cinema di Angelopoulos diventa ciclica e dal passato ci porta al presente nella immutabilità degli scenari e per dare vita al destino comune dell’uomo tra passato e presente.

 

Alessandro il Grande (1980)

 

In film come Alessandro il Grande con Omero Antonutti e Leone d’Oro alla Mostra del Cinema del 1980 o La recita del 1975 (immagine in apertura) che non è solo il lungo percorso di una compagnia di attori, ma soprattutto il viaggio rappresentativo di un tempo infinito che scorre, in una sperimentazione meta-cinematografica che avviene attraverso il teatro in questa infinita rappresentazione nello scorrere del film e dei suoi 230 minuti; Lo sguardo di Ulisse, nel quale, seppure in una diversa prospettiva, si rintraccia la visione della storia come evento duraturo e infinito, ripetuto nel tempo e misteriosamente rivissuto dagli uomini.

Il suo è dunque un cinema che scava nella storia per trasformare gli eventi in uno scenario quasi iperrealistico, antinaturalista, nel quale leggere la presa di posizione di una radicalità estrema. Una radicalità che si manifesta in una declinazione del materialismo storico che diventa dialettica e costante con il passato in una lettura anche politica ed economica delle trasformazioni avvenute nella ciclicità del tempo. È dunque questo il suo rapporto con quel passato e quindi con la storia assunta a elemento strutturante del suo cinema. Una visione che domina Alessandro il Grande nel quale si riafferma, nella sua massima espressione l’estremismo del suo linguaggio che ha sempre fatto del rigore stilistico una costante misura di allontanamento da quel cinema facile che ha occupato lo schermo e continua a occuparlo.

L’apice di questo cinema è proprio Alessandro il Grande nel quale l’esaltazione del mito come contemporaneità della storia e invincibile arma del comune denominatore di una comunità diventa materia stessa del racconto ed esaltazione di una potenza che sembra concretizzarsi in quel sorgere/ri-sorgere del cavaliere senza tempo dalla collina insieme al primo sole del ‘900.

 

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