La seconda parte del saggio di Tonino De Pace sul cinema di Theo Angelopoulos, in occasione dell’omaggio che MUBI dedica al regista greco.
I tempi politici e storici, con l’andare del tempo, diventano intimi e si leggono in relazione alla propria storia, al proprio passato che sinteticamente rivive nelle proprie immagini personali, quelle della memoria.
Accade così in L’eternità e un giorno (1998), con Bruno Ganz smarrito tra malattia e desiderio di vita, o in La sorgente del fiume (2004) ambizioso film nel quale la storia di un’Europa lacerata dalle guerre diventa l’ostacolo che impedisce a Eleni e Nikos di vivere a pieno la loro lunga vicenda d’amore. Un film che di nuovo vive dentro gli scenari reali di una topografia precisa scandagliata dalla macchina da presa del regista che esalta la ruvida consistenza di quella parte della penisola che dalla Macedonia si stende fino alla Grecia lungo lo scorrere del fiume Vardar. Angelopoulos coglie e modella quei paesaggi nell’ampio sguardo con le sue focali panoramiche e gli onnicomprensivi campi lunghissimi che aprono a prospettive vertiginose e all’immaginario, diventando, al contempo, interpretazione visionaria del cinema e forma leggera della memoria. I luoghi mutano la loro originaria essenza di borgo fluviale per diventare espressione di una concezione più ampia, più storica, più epica e più tragica. Il luogo si fa di nuovo epicentro di una storia più grande di quella narrata e il villaggio luogo originario nel quale le storie si generano centralità della storia. Scenari reali ma volutamente iperreali – che ricordano le dinamiche spaziali del lavoro di Ghirri – che nel riscostruire la visione del passato, diventano riflesso della disanimante solitudine dei personaggi, l’ampio proscenio – come sempre accade nei suoi film – teatro della storia che dà forma alla sorte dei personaggi.
Il suo cinema diventa strumento per inventare lo spazio dello sguardo (e quanti ce n’è nel suo cinema!), come ariosa ed essenziale forma della rappresentazione dell’esistente e quindi di quel reale contaminato dalla storia e dal suo rinnovarsi nella quale la teorizzazione di un’epica incancellabile e radicata nelle sue immagini, sanno farsi costante forma del suo linguaggio narrativo. Si tratta dunque di un cinema autenticamente tragico che attinge le sue forme narrative e le sue strutture da quella invincibile tradizione della narrazione greca classica. Un cinema che in questa visione di convivenza tra passato e presente diventa sontuoso e gigantesco, cinema nel quale si consuma la tragedia del destino nel lento fluire di quel tempo immutabile e ripetuto. È un’operazione di rigenerazione storica e di reinvenzione, nella contemporaneità, del mito, in un attraversamento della storia che diventa assidua ricerca di conferme alla sua visione molto vicina all’eterno ritorno nietzschiano nel tempo non lineare, ma circolare.
Se dunque storia e tempo, formano i caposaldi del suo cinema che in questa visione diventa necessariamente maestoso, i temi politici, portato essenziale della cultura del regista, si inseriscono nella struttura come costante lettura del potere quale ulteriore componente, lontana e invisibile, che contribuisce a dare forma al destino dei suoi personaggi. Sono questi i mezzi della retorica del suo linguaggio ed è attraverso l’uso sapiente di questi mezzi che le sue narrazioni acquistano l’imponente misura di cui si diceva.
È l’epica di Alessandro il Grande nel quale si fondono le figure del bandito/condottiero fuori dal tempo, ma dentro quello stesso tempo, emulo dell’imperatore macedone, o quella del viaggio sul fiume europeo di Lo sguardo di Ulisse (1995), film nel quale il regista recupera un’idea originaria e comune che appartiene al pensiero europeo che sembrava frantumarsi in quegli anni della sanguinosa guerra dei Balcani, che difendendo la conservazione del passato avrebbe dovuto preservare il fruttuoso deposito per il futuro. Da qui la mitizzazione delle narrazioni come natura formativa primaria e genetica del suo cinema, attraverso la quale si apre una ricerca dell’essenza dell’esistenza. Paesaggio nella nebbia (1988, immagine in apertura), vera incursione dolorosa in una memoria inesistente, il già citato Lo sguardo di Ulisse alla ricerca di un cinema perduto che si fa viatico benefico per quel conflitto bellico e nel quale non solo si riafferma la priorità del cinema come memoria indelebile e strumento per fare convivere il passato e il presente.
Caratterizzato da lunghi e lenti, ma perfetti, piani sequenza, nei quali i suoi personaggi si perdono spesso in sconfinati panorami, in una essenzialità che ha i sintomi della perfezione nel suo persistente desiderio di fissare l’immagine per raccontare nella sua sintetica essenza l’umanità smarrita, senza casa e senza luogo, i luoghi stessi e la loro memoria circolare come le sue panoramiche a 360 gradi. In quella ricerca di casa e luogo nell’epica serissima delle proprie antiche tradizioni e nella storia che diventa corredo genetico per tutti i popoli. Da qui il suo cinema, senza luogo e senza confini, ma al tempo stesso in molti luoghi e sul limitare di molti confini. Terre e acque sono i segni che ci lasciano le sue immagini, luoghi segnati da una funzione espressiva in quel reale fittizio nato da una riflessione sulla sua trasformazione in quell’antinaturalismo che lo trasforma.
Se da una parte quindi un titolo come L’eternità e un giorno sembra condensare in un infinito presente il concetto di storia umana e personale, in quella coesistenza tra passato e presente che vive il doloroso personaggio di Alexandros interpretato da Bruno Ganz, dall’altra parte i suoi film denunciano l’aspirazione del regista greco a una sorta di summa dell’esistenza totale dell’uomo – e questo film ne conferma il principio – che si leggono anche in quelle irresoluzioni dei suoi racconti, nelle sospensioni senza spiegazioni, nelle ellissi poetiche delle sue sequenze. Queste le poetiche del suo racconto per assolvere al difficile compito che egli stesso si è dato: offrire una compiuta e mai narrata storia di quei popoli portatori di una civiltà frantumata dalla diaspora che conserva nel mito e nelle tradizioni il germe della sua sopravvivenza.
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