L’effetto nostalgia, si sa, non l’ha inventato Netflix: di sicuro, però, l’azienda americana è riuscita a renderlo glamour come pochi, costruendoci su gran parte della propria fortuna. Che sia il revival degli anni Ottanta di Stranger Things, il consolidamento televisivo degli eroi Marvel o il recupero di icone dei cartoon e dei videogame (Devilman Crybaby e Castelvania, per citare due titoli), il criterio dell’attingere a quanto sedimentato in una memoria di lunga data è applicato con una sistematicità stupefacente. Non apparirà dunque azzardato affermare che siamo vicini a un momento in cui l’attività di Netflix non si limiterà più soltanto a raccogliere scampoli nostalgici già presenti altrove, ma, al contrario, servirà essa stessa a determinare la qualità di un trend. I giocattoli della nostra infanzia può, a tale scopo, costituire un interessante punto di snodo: nel revival dei decenni passati in cui siamo immersi da qualche tempo, i “toys” restano un territorio abbastanza inesplorato, collegato principalmente a minute community su siti specializzati o nelle fiere, ancora incapaci di determinare in maniera incisiva un’identificazione di massa, come può diversamente accadere con film, serie e in larga parte anche i fumetti. Piccoli segnali di una inversione di tendenza c’erano sicuramente già stati, come dimostra il grande consenso che ha accompagnato l’uscita di Dieci anni nel paese delle meraviglie, il libro di Alberto, Lapo e Niccolò Ferrarese sulla storia delle pubblicità che hanno fatto la fortuna italiana del marchio GIG, finanziato attraverso il crowdfunding. Ma è la prima volta che un colosso dell’intrattenimento di grande portata decide di investire in modo forte e continuativo sull’argomento.
La serie creata da Brian Volk-Weiss poteva quindi apparire una scommessa, che si rivela però vincente proprio laddove riesce a far capire quanto in realtà un argomento così specifico costituisca invece un’efficace cartina di tornasole per comprendere le trasformazioni del costume e dell’economia in seno alla società americana (e non solo). Al momento in cui scriviamo, la serie ha diffuso le sole prime quattro puntate di otto, dedicate rispettivamente a Star Wars, Barbie, Masters of the Universe e G.I.Joe. Il format prediletto da Volk-Weiss riassume in circa quarantacinque minuti a episodio la storia dei vari brand, raccontandone la nascita, lo sviluppo e, spesso, la caduta: che non è solo la normale caducità del marchio superato dal tempo e dai gusti mutevoli delle generazioni, ma anche quella dei realizzatori che alternano intuizioni, fortune e disgrazie, riassumendo in sé l’alta percentuale di rischio insita nel sogno americano, con tutti gli strascichi annessi in fatto di sprechi ed eccessi commessi durante i periodi di piena – interessante in questo senso la parabola di Barbie, pensata come “buon modello comportamentale per le bambine della classe media”, ma ispirata dal personaggio di un fumetto erotico e stretta tra i falsi in bilancio di Ruth Handler, presidente e co-fondatrice della Mattel, e gli stravizi e le dipendenze a base di cocaina e sesso del designer Jack Ryan. La scelta dei marchi resta pertanto non estemporanea, ma utile a determinare un dialogo interno fra i vari giocattoli: i Masters derivano in un certo qual modo dal successo di Star Wars, e dalla voglia della Mattel di creare una proprietà di successo dopo aver rifiutato l’idea di George Lucas, finita poi in mano alla piccola Kenner (in seguito acquisita dalla Hasbro); e G.I.Joe viene pensato come una specie di Barbie al maschile: la lotta per le fette di mercato di Hasbro e Mattel si identifica così nelle vicende personali e spesso familiari dei gestori, nelle faide intestine per rivendicare la primogenitura delle idee, che spiega ancora una volta come la storia dell’economia sia principalmente racconto di umane debolezze e ricerca della felicità – viene in mente in tal senso un altro libro, Come Adam Smith può cambiarvi la vita, di Russ Roberts. Di fronte a vicende talmente appassionanti quanto controverse, sembrerebbe imporsi una certa sobrietà narrativa, ma, al contrario, I giocattoli della nostra infanzia predilige un registro spesso sopra le righe, con robuste iniezioni di ironia che sottolineano l’aspetto paradossale delle vicende umane, e a tratti sembrano quasi irridere i prodotti stessi. Si tratta in realtà di una prassi abbastanza consolidata all’interno delle community dedicate al giocattolo, come è possibile notare in database online anche importanti quali la Transformers Wiki (dove le didascalie alle immagini sono sempre cariche di ironia e simpatici sfottò). The Toys That Made Us – titolo originale, più incisivo perché sottolinea proprio il legame tra giocattoli e formazione – riesce così a trarre la maggior completezza tematica dall’argomento, mentre dimostra di parlare la lingua che i collezionisti già conoscono, aspetto fondamentale per la creazione di un trend che si rispetti. Il punto di vista appassionato si allarga quindi a una trattazione di stampo storico-sociale in grado di interessare anche il pubblico dei neofiti, dimostrando la capacità che questi prodotti hanno avuto nel tempo di farsi immaginario di un’epoca e una Storia.