Su Sky Atlantic lo sgretolamento della complessità in The Undoing – Le verità non dette

Dopo i consensi raccolti con Big Little Lies – Piccole grandi bugie (due stagioni, attualmente su Sky Atlantic), capace di mescolare dramma e leggerezza espandendo non sempre con equilibrio le suggestioni del testo originario di Liane Moriarty, e con Mrs. Mercedes (tre stagioni in corso su Starz Play), serie ambiziosa per come tenta di dialogare con le atmosfere cupe del romanzo di King, David E. Kelly torna alla ribalta con The Undoing – Le verità non dette, miniserie in 6 episodi prodotta per HBO, tratta dal romanzo Una famiglia felice (You Should Have Known, Piemme, 2014) di Jean Hanff Korelitz. Cast di richiamo che vede in prima linea la grazia di Nicole Kidman (già al centro del progetto Big Little Lies, qui pure produttrice e interprete della canzone della sigla Dream a Little Dream of Me), il fascino sornione di Hugh Grant ma anche il peso di due figure potenzialmente esplosive ma poco sfruttate come Donald Sutherland e Edgar Ramírez; regia affidata a Susanne Bier, di nuovo alle prese con un’esperienza seriale dopo The Night Manager (2016) e fotografia curata dal premio Oscar per The Millionaire Anthony Dod Mantle. Ambientato a Manhattan, il racconto segue la vicenda di Grace e Jonathan Fraser, ricca coppia che insieme al figlio adolescente Henry vive in un’elegante casa nell’Upper East Side, a pochi isolati da Central Park. Famiglia apparentemente felice: lei psicoterapeuta, lui oncologo infantile, il ragazzo studente in una prestigiosa scuola privata. Tutto in ordine. Spazi ariosi, sguardi di complicità, cappotti su misura, arredi luccicanti, distanze precise.

 

 

Tutto pulito. E il tutto fila liscio finché Grace non rimane turbata dall’incontro con l’artista Elena Alves (Matilda De Angelis) che di lì a poco viene trovata morta nel suo studio, brutalmente uccisa a martellate. Vistosamente disorientata e stranamente inquieta, Grace vedrà progressivamente sfaldarsi il tutto delle sue certezze. Diversamente dal titolo del romanzo da cui è tratta, il cui senso in originale fa leva sull’amarezza di un rammarico, rafforzato con sarcasmo nella traduzione italiana, la serie di Kelly mostra chiaramente la sua intenzione fin dal titolo con cui è stata distribuita: raccontare il disfacimento di un tutto, la frantumazione di una realtà idilliaca, la rovina di una solidità funzionante e affidabile. Una scelta esplicita ma ragionevole se si pensa a come lo svolgimento dell’intreccio sia teso a mettere in scena una fine, sottolineando la conclusione e l’inesorabile fallimento di una famiglia-sogno, come già la sigla d’apertura cantata dalla Kidman tiene a precisare, anziché un fine. Inconsistente e del tutto fuorviante, invece, il sottotitolo scelto dalla distribuzione italiana che sentiva la necessità di anticipare uno dei nuclei fondamentali della trama mettendo lo spettatore in una situazione di comfort consegnandoli così le chiavi di accesso all’intrigo.

 

 

E così, il mondo wasp, ipocrita e agiato, è bersaglio e scenario di questo family drama tanto ancorato al mistery e al thriller per sviluppare una torbida storia di intrighi e ossessioni, quanto proiettato a mettere a nudo le menzogne di cui questo mondo si nutre. Nonostante alcuni buoni spunti di partenza, scivolati via come se nulla fosse ma efficaci nel posizionare uno di fronte all’altro due universi femminili diversi, a ben guardare non così lontani (il nudo integrale e frontale di Elena, le sue maschere, le sue scollature e la sua dimensione “periferica” ma desiderata da una parte, lo sguardo irrisolto di Grace, i cappotti su misura, le lunghe passeggiate, la sua finezza e la sua dimensione “centrale” ma respinta dall’altra), il racconto mostra più interesse a innescare roboanti e maldestri colpi di scena, anziché puntare sul bilanciamento delle emozioni, lo scavo psicologico o sulla costruzione intelligente della suspense. Compiacendosi degli shock emotivi che snocciola senza pudore, ritrovandosi oppresso dal guilty pleasure e dalle stesse ambiguità che caratterizzano il mondo nel quale è immerso, The Undoing si rivela prodotto ingannevole per lo spettatore, imprigionato com’è dalla sua dorata confezione assemblata da una scrittura distratta e indolente e guidato da una regia complice nell’abbandonare ogni forma di profondità in virtù di una più banale e consolatoria piattezza di sguardo. Siamo distanti da quella complessità con cui tanta serialità ci ha abituato a fare i conti negli ultimi vent’anni e il sospetto, più che fondato trattandosi di Kelly, è quello di trovarsi di fronte a un prodotto privo di una forte identità (commistione di generi squilibrata tra crime, legal e melò), audace e pruriginoso per la sua patina da vetrina ma incapace di mascherare la banalità. Non si chiami in causa la semplicità perché, sin dai primi episodi, si respira la presunzione e quindi la consapevolezza di volere apparire per quello che non si è, tradendo quel fondamentale patto con lo spettatore, e con i generi, stipulato su regole precise (a tal proposito, sul fronte della narrazione delle ossessioni e sulla trasfigurazione dei generi, si guardi a serie come You o The Stranger che giocano il match senza pretese ma con onestà).

 

 

 

L’esempio più lampante è offerto dalla scrittura del personaggio di Grace, profilo che avrebbe meritato maggiore considerazione. Volta a dare spessore a questa donna smarrita nella sua solitudine (e qui si deve riconoscere un attento lavoro sui costumi) l’interpretazione di Nicole Kidman non è sufficiente a liberarla da certe forzature di sceneggiatura: Grace è una psicoterapeuta impegnata a dispensare consigli agli altri, lucida nel riconoscere i loro bisogni ma incapace di curare se stessa; è una donna tradita che impatta contro nuove verità e comprende di vivere una realtà lontana da quella sognata. Se The Undoing avesse scommesso sul suo non-vedere, un po’ come faceva a suo modo la prima stagione di Desperate Housewife a cui sembra ispirarsi in alcuni passaggi, certamente la serie di Kelly avrebbe alzato la posta in gioco instaurando un dialogo con lo spettatore meno scialbo, più pungente e autentico, interpellandolo e provocandolo in un sottile incastro psicologico di tranelli e forme ostili, inevitabilmente meno accomodante. Al contrario, la presunzione e la sfacciataggine di The Undoing manipola lo spettatore adottando soluzioni di intrattenimento stucchevoli e didascaliche come quando, guardando a The Good Wife ma calpestandone la densità e l’acume, Grace indossa lo sguardo poco credibile della “buona e perfetta moglie” che deve mantenere la calma accanto al marito accusato. Rispettando l’originale modalità di diffusione degli episodi, negli USA scandita ogni settimana, in Italia avvenuta in unica messa in onda, si potrebbe riconoscere quella densità a cui la serie ambisce, descrivendo una vera discesa agli inferi di una famiglia apparentemente felice. Ma, tenendo in considerazione il ritmo della narrazione orizzontale al confronto con quello della narrazione verticale, non si ha l’impressione di un graduale cedimento al compromesso morale. Grace è davvero disposta a tutto per salvare Jonathan? Così non sembra. Il suo cambiamento (che settimanalmente sarebbe sì dilatato mentre in binge watching risulta compresso) è poco o per nulla supportato dalla messa in scena e, soprattutto, dalla scrittura dei personaggi minori, pedine innocue (dal padre Sutherland, all’amica Rabe) e messe ai margini (su tutte, quella del poliziotto di Ramírez è la figura che più accusa il colpo).  Sbarazzato il campo da tale complessità, tanto da non distinguere gli effetti della trasformazione di Grace e le radicali disfunzioni di Jonathan, The Undoing si butta su una giostra di effetti, dimenticandosi degli affetti: i flashback reiterati privi di punto di vista, dissociati da qualsiasi presenza di narratore, la rivelazione degli snodi principali (il ritrovamento dell’arma del delitto nel camino, “immagine” esplicita inserita in un’inquadratura poco prima di risultare luogo decisivo per l’intrigo), l’inconsistenza di alcuni dialoghi (quello triste e povero in cui Jonathan accusa il figlio ma pure quello raccapricciante in cui Jonathan consegna a Grace la tragedia della sorella), fino all’indagine scomposta dove sembra che i poliziotti possano diventare di più e, invece, come tutto in The Undoing, sono di meno. Infine, del tutto fuori asse per verosimiglianza, empatia, modalità narrative e gratuiti ricatti, il segmento processuale anticipa un finale grottesco che solo la morte di Jonathan potrebbe riscattare. Invece, per l’ennesima volta, smantellando ogni combinazione complessa, smontando ogni punta drammatica e lineamento psicologico, il meccanismo illustrativo volto a facilitare la trattazione del tutto spinge lo spettatore di fronte al fatto compiuto, brutalmente elargito senza il minimo rispetto di strategie narrative e così il grande e atteso colpo di scena, e un certo senso di frustrazione, viene negato. Ma The Undoing è anche una serie di successo. Stando ai calcoli di HBO, ha superato sia Perry Mason, Lovecraft Country. Tuttavia, oggi è difficile immaginare una seconda stagione.