Probabilmente non esiste regista che meglio di Tobe Hooper sia associato al concetto della “casa stregata”. Questo nonostante il compianto autore texano non sia mai stato davvero prolifico sul tema: case infestate nella sua filmografia se ne contano a malapena (c’è quella di Poltergeist, dove i meriti vanno divisi però con Steven Spielberg…), ma resta in generale ferma un’idea della casa in quanto alveo mostruoso, uterino nel suo rimestare i miasmi di un’umanità corrotta al punto da permeare la realtà (si pensi alle suppellettili ossee di Non aprite quella porta). Nel particolare divenire della sua produzione, a un certo punto Il tunnel dell’orrore appare quindi come una tappa obbligata, anche e sopratutto perché rilegge l’idea della “casa-mostro” esplicitando quella cifra grottesco-ludica che resta l’aspetto più sottovalutato e incompreso del regista. Uno che nel florilegio di maschere e ambienti spettrali ha sempre cercato anche l’elemento divertito, in una sorta di duettare ironico-iconico del genere. Ecco quindi la deviazione verso la funhouse da Luna Park, di cui viene esaltata la matrice teatrale, “baracconesca” dell’orrore in quanto ricettacolo di ammenicoli e bric-a-brac per cultori. E anche quella particolare devianza da mondo a parte, culla per outsider e corpi freak, evidente sin dall’esplicito tour dei protagonisti fra le aberrazioni animali.
In mezzo c’è un importante passaggio di snodo, quello che colloca Il tunnel dell’orrore tra la prima fase dei Non aprite quella porta e Quel motel vicino alla palude, e la seconda che da Poltergeist porterà a Non aprite quella porta – parte 2: il che significa quindi la transizione dagli umori più oscuri degli anni Settanta alla clownerie degli Ottanta, da una poetica di sperimentazione visiva che trasfigura la realtà in senso visionario, a un mondo che è puro spazio cinematografico. Di questo passaggio Il tunnel dell’orrore già ne porta le stimmate, sin dalla scena iniziale che “rifà” Halloween di John Carpenter intrecciandolo al modello di Psyco: c’è un horror come gioco, e c’è la consapevolezza dei modelli da parte di un pubblico ormai già smaliziato, che vuole spostarsi fisicamente in un mondo che è pura derivazione cinefila. È dunque piacevole tornare a perdersi tra gli anfratti immaginifici eppure concreti di una realtà che il regista ridisegna come sempre attraverso un lavoro molto specifico sui tagli delle inquadrature e sull’uso espressivo del colore: la fotografia di Andrew Laszlo diventa non a caso l’autentico valore aggiunto del film, per come riesce a produrre quei minimi scarti in grado di passare dal terrificante al meraviglioso in poche inquadrature, come in un film di Mario Bava. Il pubblico compie così il suo viaggio insieme ai protagonisti fra le attrazioni della paura, in una sorta di percorso a ritroso, tanto cinefilo (il mostro è esplicitamente sovrapposto alla tradizione Universal incarnata da Frankenstein) quanto concreto: il gioco, infatti, si rivelerà la riscoperta di una piega della realtà dove la mostruosità è reale, squallida, fatta di rapporti consumati voracemente e nella violenza, molto netto nella separazione tra gli uni e gli altri. Il senso della proprietà, non a caso, è sempre forte nelle parabole hooperiane e rappresenta la linea di demarcazione fra i mondi, oltre a dare concretezza all’idea della “casa” come universo chiuso. La nuova edizione Blu-ray Disc della Midnight Factory permette dunque di rivivere uno dei capitoli meno compresi dell’autore nella ricchezza di un’uscita davvero peculiare per varietà dei contenuti: due montaggi del film (con circa 5 minuti di differenza nella durata), un booklet curato dai responsabili di Nocturno, molti approfondimenti video recuperati tra i vari documentari che negli anni sono stati dedicati al progetto (fra cui un’intervista a Hooper del 2007), e un approccio filologico come la linea di Koch Media ci sta ormai abituando. Ecco dunque spuntare nel terzo disco anche Eggshells, primo e poco visto lungometraggio hooperiano del 1969, una parabola hippy, che iscrive la consueta vena visionaria in un ambito più surreale e poetico, con alcuni ragazzi che si ritrovano e perdono tra natura, allucinazioni e sequenze animate – il tutto in una casa, naturalmente, che poi sarà la stessa di Non aprite quella porta, e il cortocircuito sensoriale oggi appare notevole. Segno che anche quando sperimentava in ambito studentesco, il regista aveva già le idee ben chiare: un progetto nato da esperienze personali (Hooper aveva vissuto per un po’ di tempo in una comune) e che nell’accostamento a Il tunnel dell’orrore crea un interessante collegamento che rende l’edizione una sintesi sulla produzione meno vista del regista. Nota di merito anche per la cover esclusiva dell’edizione, realizzata dal grande cartellonista Enzo Sciotti, che già aveva reso eccellenti i manifesti dei film di Lucio Fulci e Lamberto Bava, tanto per continuare il gioco fra tradizione, gioco, classico e moderno.