Christophe o il posto dell’elemosina di Nicola Russo: sulla strada, teatro dello straniero

Christophe si è fermato a Parigi. Questo il suo posto. Che ha deciso o che lo ha deciso. Se ogni uomo è un’isola, lui ha scelto questo spazio urbano finito/infinito come sintesi del mondo, dove esercitare il suo sguardo solitario e straniero, silente e metodico, perduto e padrone. E, forse, la possibilità di un incontro.

Il palcoscenico è la strada: noi spettatori sparsi, senza soluzione di continuità, disposti/dispersi in un arredo urbano slabbrato e fragile di reti, impalcature, transenne e detriti, vediamo agitarsi il corpo narrante evocato e incarnato con convinzione, concentrazione e pathos contenuto da Nicola Russo. Siamo con lui, narratore di solitudine, liberi e prigionieri, per poco più di un’ora. Parla in prima persona, fra soliloquio e rincorse di altrove, agitazioni, elevazioni, memorie, vocazioni e rievocazioni. Vediamo con i suoi occhi la città e i suoi passanti. Si aggira, sans papiers e senza pace, a caccia di soldi e di parole, che assimila ma non proferisce; di posizioni che non sono mai definitive, sempre scomode (anche il momentaneo hotel Eldorado); di carte, che sostituisce simbolicamente e insieme concretamente ai documenti che non ha: la mappa ridisegnata dall’esperienza della metropoli, le pagine scavate e triturate di un dizionario, l’origami che di un foglio scritto fa una creazione volatile, e poi le missive che riempie di senso come pro-vocazioni proiettate su una parete di un artista concettuale in cerca di contatto e di futuro.

 

 

La posizione di chi fa l’elemosina, scopriamo ascoltando il racconto di questo clochard tunisino fiero e inquieto, è l’inverso di quella di chi non ha nulla da fare: implica regola e osservazione, sguardo antropologico, filosofico, perfino pedagogico: lo “straniero assoluto” che dice di essersi scelto il nome di un santo con la testa di cane (ma che risuona di passione nel suo appellativo acquisito) si comporta un po’ da monaco e un po’ da maestro. Sostiene che «l’elemosina è una questione di metodo, come una forma d’arte». In questa perizia e pervicace c’è una vocazione, un progetto, un apprendistato («la cultura mi ha portato per strada»), la capacità si sfruttare la città come riserva enciclopedica e nutrimento (i film gratuiti alla Cinémathèque, i libri presi in prestito nelle biblioteche, le parole apprese che non bastano mai). Non capiamo quanto il percorso di questo senza tetto sia scelto o subito, trasfigurato o inventato. C’è in lui orgoglio e preghiera, sogno e ossessione, bestemmia e illuminazione, negazione e visione.

 

 

Russo assembla e interpreta, sul filo indiziario e documentario di una serie di lettere arrivategli da Christophe, una certificazione d’esistenza profonda e immaginaria, raccontando un incontro ma al contempo facendolo vivere, attraverso il teatro, al suo pubblico che, pur non potendo stabilire il grado di veridicità fattuale della storia ne percepisce la natura autentica, e sfuggente al contempo. Messa a nudo eppure gioco del nascondino, museo di un’anima e restituzione di un’esperienza, questo modo di mettere in scena l’altro fa riflettere e, in qualche modo muovere, come esortano, in fondo, le battute conclusive, monito etico ed estetico che lavora dentro: «Avvicinati un po’, sei ancora troppo lontano». Rimanda alla nostra responsabilità di cittadini/spettatori/attori (siamo in platea? siamo sul palco? qual è il nostro posto, la nostra città?) nei confronti dello straniero, di ciò che non capiamo e della ferita del mondo e del suo lavoro in corso. Di fronte a questo spettro, come suggerisce Amleto, occorre dargli il benvenuto, come con lo straniero. Di fronte a questo straniero, che come spettro ci parla.

 

Foto di Laila Pozzi

Visto al teatro Elfo Puccini Sala Fassbinder, il 28 marzo 2023.

Milano, Teatro Elfo Puccini     21 marzo – 7 aprile