Nicola Russo: Anatomia comparata e il lavoro sull’assenza

Il suo ultimo lavoro teatrale, Anatomia comparata. Una festa per il mio amore è in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 30 giugno, interpretato da Elena Russo Arman e Marit Nissen. Nel frattempo è uscito per Titivillus il libro Teatro che raccoglie tre sue opere: oltre ad Anatomia comparata, storia del grande amore che ha unito due donne, Io lavoro per la morte (2017), sulla morte della madre Marcella, e Elettra, biografia di una persona comune (2010), incentrato su Elettra Romani, attrice di avanspettacolo. Testi popolati da fantasmi, in cui il passato dialoga con il presente e la vita con la morte in un hic et nunc che può lasciare spiazzati, ma che è l’unica soluzione possibile per andare avanti. Partendo da esperienze personali Nicola Russo, autore, regista e attore, mette in scena uno scambio denso e mai banale che arriva a toccare le nostre corde più intime. Lo abbiamo intervistato.

 

 

 

 

 

In Anatomia comparata racconti un amore al femminile e inevitabilmente non sei in scena.
In realtà anche in Vecchi per niente (2015) non ero in scena. Credo faccia parte di una presa di coscienza rispetto al mio lavoro di autore e di regista: ho iniziato facendo l’attore e ogni tanto sento la necessità di fare un passo indietro. Soprattutto in progetti che mi coinvolgono particolarmente ho bisogno di non essere in scena perché quando sei dentro come attore hai sempre la visione dall’interno. In questo caso volevo raccontare una storia al femminile, ma si tratta di una vicenda che mi tocca nel profondo per questioni mie personali. Credo fermamente che quando siamo troppo coinvolti in un lavoro non è scontato far emozionare le persone, a volte bisogna avere la freddezza di osservare le cose per restituirle al meglio agli altri.

 

Nel tuo teatro affronti temi molto personali che però sono universali, in cui ognuno può riconoscersi.
Quando racconti episodi della tua vita o incontri, un vissuto reale, se sei sincero il pubblico lo percepisce. Se scrivessi per venire a patti con i miei fantasmi, risolvere i miei problemi, sono convinto che il pubblico non si riconoscerebbe perché sarebbe troppo personale. Per scrivere un testo ci metto veramente tanto, non mi riferisco alla scrittura, ma al tempo che impiego per assorbire le cose e poi farle emergere. Si tratta di storie personali, a cui devo dare una forma, capire in che modo portarle fuori e questo prevede all’origine un lavoro di conoscenza di sé. Più mi conosco – da diverso tempo porto avanti un percorso di meditazione -, più il lavoro che faccio su di me per trovare pace su determinati argomenti mi permette di affrontarli, di ironizzarci sopra, di dar loro corpo. Lo spettacolo su mia madre non avrei mai potuto farlo prima di quando l’ho fatto perché sarebbe stato uno strazio, non solo per me. Spesso provo imbarazzo quando vedo opere in cui si percepisce lo strazio interiore di chi mette in scena qualcosa di molto personale. Quando questo avviene mi distacco, quindi la mia esperienza di disagio da spettatore cerco di portarla nella mia esperienza d’autore come se volessi dire a chi guarda: «Io questa cosa l’ho vissuta, l’ho superata, ne posso parlare». Mi sono accorto che più è preciso il mio distacco, e di conseguenza il modo di raccontare ciò che ho vissuto, più le persone si identificano al punto che molti vedendo Io lavoro per la morte mi hanno detto: «Sembra mia madre».

 

Io lavoro per la morte

 

Ci tieni a ribadire che non fai teatro come terapia.
Casomai l’esperienza psicanalitica riguarda lo spettatore che riflette in quel momento al presente. Ho un po’ la pretesa di far fare un lavoro a chi guarda: lo spettatore deve necessariamente confrontarsi e quando qualcuno dice che vedendo un mio spettacolo ha pensato alla sua vita è il massimo, significa che quella volontà di tendere all’universale, come dicevi tu, va nella direzione giusta.

 

Nel tuo teatro la parola è molto importante e questo implica una bella sfida per le attrici e gli attori coinvolti.
Sì, lo è. Ogni volta c’è il momento in cui le persone con cui lavoro si preoccupano del testo, anche se è altrettanto vero – e lo dico da attore – che si ha sempre gran piacere di avere tanto testo da dire. C’è la volontà di tagliare, ma al tempo stesso c’è una fierezza di avere tanto testo, là dove il testo deve essere significante, non superfluo. Di tagli comunque ne facciamo, fa parte del lavoro con gli attori. Anatomia comparata aveva altre parti che sono saltate, perché quella lingua deve essere abitata proprio da Elena e Marit. La mia sfida è sul linguaggio che sulla pagina è letterario, ma poi ho bisogno che sia abitato da un corpo per diventare organico. Personalmente non vado a teatro per sentir parlare come nella vita perché credo che il teatro abbia un’altra funzione, mi piacciono testi che hanno aperture poetiche che ti portano in un mondo dove si parla in un altro modo, dove succede che dialogo con una persona che non c’è più, dove ci sono i salti temporali, dove sono al presente, ma anche al passato. Per me questo non potrebbe avvenire con la stessa armonia se usassi un linguaggio più quotidiano, quindi sicuramente per gli attori è una sfida, ma anche per me come regista lo è. Ho sempre in mente la messinscena dei miei spettacoli, quando scrivo rileggo tutto ad alta voce, sento se funziona… In parte supplisco a una mancanza, scrivo le cose che mi piacerebbe qualcun altro scrivesse per me.

 

Anatomia comparata. Una festa per il mio amore

 

Hai scritto il testo pensando a Elena Russo Arman e Marit Nissen?
Per quanto riguarda Elena sì, era tanto tempo che volevo lavorare con lei, anche per la storia teatrale che ci lega, abbiamo condiviso tanti spettacoli e poi abbiamo lo stesso cognome. Diciamo che ho scritto per lei pensando anche un po’ a me. Per il personaggio di Diane è stato più difficile, sapevo che volevo un’attrice non italiana perché faceva parte della costruzione drammaturgica, volevo qualcuno nella cui lingua si sentisse un accento, fisicamente molto diversa da Elena. Elena e Marit sono straordinarie perché hanno una grandissima naturalezza, sembra parlino davvero tra di loro, ma quella naturalezza è frutto di una costruzione, di una grande finzione senza la quale non sarebbe possibile. Quando le ascolto mi dico che anch’io ho fatto un bel lavoro con loro perché non è scontato riuscire a essere credibili e naturali senza essere quotidiani su un testo così.

 

Tutti e tre i tuoi testi sono in qualche modo cinematografici: ci sono i flashback, tutto avviene nello stesso momento in una sorta di montaggio alternato.  
Mi fa piacere che lo hai notato perché il cinema nei mie spettacoli c’è, ma in un modo che non tutti colgono. Non riguarda una citazione di un film o di una musica, né l’uso di video o un certo tipo di naturalismo… È un cinema più legato al tempo, al fatto di poter avere un flashback, il cinema lo fa con tanti mezzi, improvvisamente siamo in un’altra epoca, in teatro paradossalmente questa cosa la puoi fare con niente. In Anatomia comparata a parte un fondale non c’è nulla, quindi è anche un po’ la fantasia del cinema, prendersi la libertà di dire adesso sto parlando con un morto, ora siamo vent’anni prima…

 

Elettra, biografia di una persona comune

 

Sicuramente per le tue opere non scegli la via più facile…
Ne sono consapevole. Ognuno ha la sua esperienza, i suoi traumi, io ho vissuto tutta una serie di perdite e questo ha fatto sì che anche per il lavoro che faccio – in teatro lavoriamo con l’effimero, con il niente, con le cose che ci sono e non ci sono – avessi da sempre una dimestichezza a lavorare con le assenze. In tutti i miei lavori l’assenza, perdonami il gioco di parole, è più presente della presenza, nel senso che si convive con le persone che non ci sono più. A me questo non spaventa ma, l’ho sperimentato per Io lavoro per la morte, molte persone sono a disagio, addirittura per il titolo. Per la nostra società la morte è un tabù enorme e non è che per me non sia dolorosa, ma credo ci siano due categorie di persone: quelle che sanno avere a che fare con la morte, con il dolore, con l’assenza e quelle che, per motivi vari, hanno una resistenza. Io mi limito a portare in scena una naturalezza nella convivenza con queste tematiche. Sicuramente non è facile ma per me il teatro ha a che fare con la morte e questo in un senso bellissimo: il teatro è qualcosa che esiste mentre lo fai e poi non c’è più. Per questo non ha senso riprendere gli spettacoli, a parte per il valore museale, il teatro è qualcosa di vivo, con una vita brevissima che implica la presenza di qualcuno che lo guardi perché è fatto per gli occhi dello spettatore. È un momento. Basta. E questo per me ha a che fare con la morte.

 

Milano        Teatro Elfo Puccini       fino al 30 giugno