Cannes, non più Cannes… Note a margine del 70° (e non solo)

C’è poco da dire – anzi molto – in chiusura di Cannes 70. Il palmarès va da sé, per automatismo indotto da una competizione di livello tanto basso da passare alla storia. Merito della Giuria almodovariana è stato quello di non fare sbagli (tranne il grossolano inciampo sul premio per la sceneggiatura a un film grossolanamente visivo come quello della Ramsay…): Palma d’Oro a The Square di Ostlung, Grand Prix a 120 battements par minute di Campillo, Premio per la Regia alla Coppola per The Beguiled, Prix du Jury a Nelyubov di Zvyagintsev… Non che mischiando le carte dei premiati si sarebbe fatto gran danno… Vanno tenuti per buoni anche i premi agli attori: Diane Kruger interprete di In the Fade di Fatih Akin ci ha messo cuore, mentre Joaquin Phoenix resta sempre un attore al di sopra della norma, anche in un film come You Were Never Really Here, dove la regia ottusa e ipertrofica della Ramsay fatica a fargli trovare il giusto spazio.

Molto da dire, semmai, c’è su Cannes come festival. Quella che doveva essere l’edizione celebrativa del settantesimo anniversario, s’è trasformata nella tomba delle migliori intenzioni sulle quali il Festival ha fondato la sua stessa identità. Cannes 70 ha mostrato i rischi della strada intrapresa da un paio di anni a questa parte, col consolidarsi dell’era Lescure e con l’ombra sempre più lunga del sistema industriale sulle pulsioni storiche di una manifestazione che ha sempre avuto la capacità di elaborare uno sguardo avanzato sulle tendenze espressive e industriali del Cinema contemporaneo. Basta ripensare alla polemica agitata dai distributori alla vigilia contro i due film Netflix (così fuori tempo massimo rispetto a qualsiasi teoria e prassi su cui si basa il Cinema oggi, come arte e come industria) per capire che tutto era già scritto nel destino di questa edizione. Cannes appare ostaggio di una industrializzazione del cinema sempre più aggressiva e totalizzante, vittima di un sistema che ragiona per “progetti” e non più per film. A dispetto delle migliori intenzioni del festival, gli autori e le loro opere finiscono per essere trattati secondo la più classica filosofia da supermercato, come merce da esporre in abbondanza di quantità e varietà, per attrarre l’acquirente (buyers da marché o spettatori, più o meno professionali essi siano) e innescare un consumo screditato: scriteriato e spersonalizzante.

Poco importa che i film siano davvero visti, amati, considerati. Poco conta se la programmazione è costretta in schedules che contemplano 20′ appena per svuotare e riempire di nuovo sale da migliaia di posti, avendo per giunta l’aggravio di un sistema di sicurezza che impone prassi aeroportuali, dettate dalla war zone globale che è ormai il nostro mondo. L’accumulo irrazionale di titoli, imposto da un’industria che tratta il festival come una vetrina personale, produce programmi bulimici e patologici, segnati dagli automatismi dovuti alle label distributive tanto quanto alle griffe autoriali. E Cannes sta sempre più perdendo quella sua storica capacità di affermare davvero la grandezza degli autori che ama e segue tanto quanto quella di annunciare nuove personalità filmiche davvero rilevanti (che non corrisponde necessariamente alla pletora di opere prime sottoposte al vaglio della Camera d’Or). Due esempi da questo 70mo: 1. Sofia Coppola: il paragone tra l’impatto e la ricezione di The Bling Ring nel 2013 e The Beguiled oggi dice tutta la distrazione e lo spreco che ha caratterizzato questo festival; 2. Tesnota, opera prima del 26enne russo Kantemir Balagov, probabilmente uno dei veri capolavori del festival, in altri anni si sarebbe naturalmente imposto, quest’anno non solo non ha vinto il premio del Certain Regard, ma è stato ignorato persino dalla giuria della Camera d’Or, che gli ha preferito il pur notevole (ma francese e molto sponsorizzato…) Jeune Femme di Léonor Serraille. I film si sono mossi sulla scena di Cannes 70 come fantasmi, spettri anestetizzati e se vogliamo anche esorcizzati, e questo non solo per i limiti oggettivi e fatali della loro qualità. Lo scenario del resto è obsoleto: va detto una volta per tutte che Cannes si basa su strutture ormai incapaci di reggere l’impatto della massa di professional che invade la Croisette, gravata da un Marché monstre che sta fagocitando il festival e da un sistema mediatico indifferenziato come un blob. E le loro parti di responsabilità le hanno anche le sezioni indipendenti, la Quinzaine des Réalisateurs soprattutto, che, nelle mancanze del Festival, ha il merito e la fortuna di proporre un cartellone degno di una Sélection Officielle  (quest’anno Garrel, Denis, Dumont, Bartas…), ma poi agisce fingendo di non capire che al tavolo dei grandi bisogna saperci stare e allora bisogna saper programmare, mettere gli spettatori nelle condizioni di vedere davvero i film che si propongono, creare sistemi di priorità tra gli accreditati, adeguare gli spazi e il numero delle proiezioni. Vale per la Quinzaine, vale per tutto il Festival di Cannes. Il prestigio non basta ed è comunque un bonus a esaurimento…