Far East 2019, un bilancio nel segno dell’acqua e del femminile

Inizia con l’incedere lento e austero di Hwang Jeong-soon, maîtresse soprannominata “Presidente”, nel film coreano del 1964 The Body Confession (di Jo Keung-ha), che nulla ha da invidiare alla Marlene Dietrich de La Taverna dei sette peccati, e si chiude con la furia di Veronica Ngo Thanh Van (superstar di action movie vietnamiti e tigre-madre in Furie di Le-Van Kiet) la 21.ma edizione del Far East Film Festival di Udine. Un’edizione quanto mai segnata dalle presenze femminili (e femministe) che ha trovato l’apice nel nuovo film di Fruit Chan (nel 2017 a Udine fu riproposto il suo straordinario Made in Hong Kong, restaurato) Three Husbands, uno “sweet movie” senza rivoluzione segnato dalla presenza di Chloe Maayan, attrice cinese già vista a Cannes nel 2018 per The Pluto Moment di Ming Zhang, ma qui assoluta protagonista. Un film che passerà alla storia, inquietante, volutamente disturbante, restio a farsi semplificare in facili metafore. Il film si apre con una vongola animata come se fosse una fiammeggiante vulva, per reiterare ossessivamente il desiderio inesaudibile di Mui, prostituta nei canali di Hong Kong, su una povera imbarcazione mezza clandestina, nella cui vagina trovano ospitalità pesci, anguille e quant’altro, oltre che ovviamente schiere di clienti, non ultimi la trinità generazionale dei suoi “mariti”, ossia il padre, l’anziano a cui lo stesso l’aveva ceduta e il giovane rassegnato marito “quattrocchi”. Lei rimane umida e indifferente, personaggio felliniano, imperscrutabile e acquosa, ma capace anche di andare in tempesta, come lo stesso film nelle scene da guerrilla filmmaking che rinnovano la fama di Fruit Chan, in questo caso con amplessi furiosi dentro un camion a cielo aperto nel pieno traffico di Hong Kong. Chloe Maayan è entrata in scena a Udine, ospite della manifestazione, con mantellina e maschera veneziana, per poi esibirsi in un canto da sirena, tipico del teatro cinese e di cui sono memorabili i siparietti visti in uno dei due capolavori restaurati, il taiwanese The Wheel of Life del 1983 (film di tre episodi, rispettivamente di King Hu, Li Hsing e Pai Ching-jui). In apertura Three Husbands di Fruit Chan.

Three Husbands di Fruit Chan

Memorabile anche l’altro film nella sezione dei classici restaurati, A speck in the water, film filippino a suo tempo sottovalutato e considerato troppo “francese” (importante la lezione tenuta lo scorso anno a Udine da Nick Deocampo sulla costruzione di un cinema identitario filippino durante la dominazione giapponese nella Seconda guerra mondiale). Diretto da Ishmael Bernal il film ci racconta nei modi classici del cinema antropologico la vita di una piccola isola dell’arcipelago, come Signal Rock di Chito S. Roño. In entrambi le donne sono al centro del racconto, uniche protagoniste del tentativo di uscire dalla marginalità e dalla miseria, e al contempo vittime principali di questo affanno. Gli uomini che le sfruttino o che restino spettatori, sono l’elemento passivo. A ribaltare con inarrivabile lucidità femminista i luoghi comuni dello sguardo sia maschile sia occidentale è il capolavoro della regista Angie Chen, che in prima persona e con meritato orgoglio ha presentato il suo film del 1985 My name ain’t Suzie in una sezione speciale del festival felicemente intitolata The Odd Couples (in cui si è rivisto anche City on Fire di Ringo Lam, abbinato ovviamente al suo finto, scompaginato remake Reservoir Dogs di Quentin Tarantino). Ancora soldati americani che sbarcano ad Hong Kong, come ne Il Mondo di Suzie Wong (film hollywoodiano del 1960, che con grande successo rinnovava i luoghi comuni alla Turandot del nostro orientalismo), gli stessi soldati dediti a puttane e risse che abbiamo già visto nel film di apertura della retrospettiva sul cinema della Corea del Sud durante la dittatura militare, dal 1961 al 1993, e che completano il quadro storico che già lo scorso anno avevano ridisegnato due film coreani importanti, l’uno documentario (Courtesy to the Nation di Gwon Gyung-won ) e l’altro di finzione (1987: when the day comes di Jang Joon-hwan) sulle rivolte studentesche di fine anni ottanta.

City on Fire di Ringo Lam

Una carrellata di titoli davvero impressionanti per la loro qualità (spicca la figura di Lee Man-hee con due film dalle atmosfere noir: A day off e Black Hair) e freschezza (come il divertente Lovers in Woomukbaemi, o Promise in the flesh, con una struttura narrativa che farebbe impallidire tanto cinema sperimentale occidentale) seppur di molto precedenti al grande sviluppo del cinema coreano, da sempre protagonista negli ultimi decenni del cinema dell’estremo oriente. Un protagonismo, quello coreano, confermato anche dalla risposta che il pubblico ha dato con gli Audience Award di questa edizione, preferendo a tanti piccoli gioielli il campione d’incassi coreano Extreme Job, un ritorno alla commedia che rasenta le sitcom e fa parodia del poliziesco d’azione, un film a basso costo per gli standard altamente spettacolari del cinema sudcoreano che quest’anno ha subito una dura crisi nella risposta mancata del pubblico, stanco delle sue sin troppe reiterate formule “di successo”. Extreme Job giunge al terzo posto, battuto da un film di Hong Kong, sicuramente aiutato dalla presenza di Anthony Wong, il più acclamato dei divi di questa edizione. Una bella rivalsa per una cinematografia che è stata il motore di avvio del nuovo cinema dell’estremo oriente, ma da tempo schiacciata (a uno dei suoi generi da tempo in declino è dedicato il piccolo film indipendente Hotel Soul Good di Yan Pak-wing, un regista dedito con il suo gruppo a tentare di rinnovare questo amore per vampiri e spiriti) dalle mega produzioni coreane, doppiamente sconfitte anche per questo. Il film di Hong Kong, Still Human, vincitore assoluto di questa edizione, non è un film d’azione, ma un vero manifesto alla libertà di pensiero e di azione, al diritto alla felicità di tutti, senza confini di diversità fisiche (il protagonista è un paraplegico), sociali ed etniche. Un film semplice, ma onesto, diretto da una donna, l’esordiente Oliver Chan, e interpretato magistralmente oltre che da Anthony Wong anche da Crisel Consunji, nel ruolo anche lei di una badante filippina, tema davvero ricorrente come non mai in questa edizione, quello dell’emigrazione femminile dalle Filippine.

Still Human di Oliver Chan

Tra i due protagonisti storici del nuovo cinema dell’estremo oriente troviamo con un solo precedente nel 2012 per il secondo premio a One Mile Above di Du Jiayi, anche questa volta un secondo premio a Dying to Survive di Wen Muye, interpretato da Xu Zheng. Anche questo è un film d’impegno sociale, in chiave meanstream da commedia, campione d’incassi in Cina e che racconta in modo conforme alle volontà del Partito Comunista cinese la storia reale del traffico clandestino di medicinali dall’India alla Cina per la cura della leucemia, soggetta alla speculazione delle multinazionali, ma romanzata perché risulti politicamente corretta. Spiace che il pubblico di Udine non sia attento a questi condizionamenti, in alcuni casi capaci di produrre anche opere di altissimo pregio, come A First Farewell, incredibile opera di esordio di un’altra donna, Lina Wang, che nei modi di un film per ragazzi non piega però le regole della censura (in Cina non rigide come ai tempi di Kiarostami in Iran) ma al contrario sembra voler fare un cinema di propaganda sì, ma di potenza inenarrabile, come Dovženko per l’URSS staliniana. Più inclini a nascondersi nella libertà di articolazione dentro i generi che il Partito consente al cinema cinese sono altri bellissimi esempi, quali The Crossing, ancora di una donna regista, Bai Xue, al suo esordio con questo piccolo grande capolavoro che ci racconta sia del rapporto tra Hong Kong e Cina, sia del passaggio attraverso l’età dell’innocenza della giovane e promettente protagonista, Huang Yao. Da segnalare anche Crossing the border diretto, musicato e montato da Huo Meng, “una storia vera” lynchiana dove il confine da raggiungere non è il fratello ammalato bensì la comunicazione ai confini tra la vita e la morte di tre generazioni, nonno nipote e figlio, ma anche quelli segnati dalla storia recente cinese dalla rivoluzione culturale in poi, e infine anche il più piccolo ma significativo A Cool Fish, opera seconda di un regista teatrale, Rao Xiaozhi, che usa la sua compagnia teatrale per imbastire una interessante black comedy, con uno sguardo attento al disagio e alle periferie. Impressionante infine, tra le opere destinate al successo in Cina, Pegasus, di Han Han, blogger, scrittore e pilota di rally e regista, mito dei millennial cinesi, a cui sembra rivolgersi con questo film con intento critico, dove l’importante non è vincere ma partecipare e dove il protagonista come Pegaso si brucerà, in una ambigua mortale vittoria contro il suo rivale, imprenditore ricchissimo, pilota eccellente perché dotato dei migliori mezzi, una lotta di classe, dove l’uno abita in un tugurio che presto sarà offuscato dal grattacielo di cui il rivale è il costruttore. Ricorda il nostro Veloce come il vento, con una spettacolarità da blockbuster e una morale meno conciliatoria. Quello che non riesce a Lost, Found, che spiace dirlo ma sembra voler schiacciare la condizione femminile nella maternità, opera prodotta dal maggior regista cinese, che con il potere instaura sempre un rapporto prolifico e particolare, Feng Xiao-gang, diretta dal suo direttore di fotografia (conteso con Zhang Yimou), Lue Yue, e interpretato da un’attrice attivista, Yao Chen, a cui il Festival ha dato gli onori per il suo impegno sui diritti civili e la condizione femminile assegnando il Gelso d’Oro alla Carriera a questa donna con 80 milioni di follower nel mondo e dichiarata tra le 100 persone più influenti del mondo.

Crossing the border di Huo Meng

 

Tra le perle e le donne di questa edizione impossibile non citare il film di apertura, Birthday, un film dichiaratamente realizzato per far piangere, film terapia per elaborare un lutto nazionale, il naufragio del traghetto Sewol il 16 aprile 2014 in cui persero la vita 304 persone con intere classi liceali. Un dramma nazionale su cui sono stati fatti altri film, ma qui con due attori straordinari, Sul Kyung-gu e Jeon Do-yeon, l’intento di questa opera prima di Lee Jong-un, una donna che si è realmente prodigata in questa opera di recupero psicologico dei genitori e amici dei ragazzi morti, è quelli di operare una vera elaborazione del lutto collettiva, una catarsi realizzata magistralmente anche sul set, con una scena di venticinque minuti girata con tre cineprese in presa diretta, lasciando una esplosione di emozione che si trasmette alla sala senza possibilità di opporvi resistenza. Ha detto la regista, il problema in Corea era avere il coraggio di andare a vedere il film. Altri film coreani che ci testimoniano la sua vivacità sono Bodies at Riest di Renny Harlin solidamente scritto con citazione finale de La Signora di Shanghai in una sparatoria tra le pareti riflettenti di un obitorio dove alcuni criminali cercano tra i cadaveri in autopsia la pallottola che può incastrarli come prova, il thriller Door Lock di Lee Kwan, adattamento di quello spagnolo Bed Time di Jaume Balaguerò, e Unstoppable di un altro esordiente, Kim Min-Ho. Quest’ultimo si fa forza della presenza di Ma Deong-seong, in Corea dopo Train to Busan (2016) un attore cult, e quel film è citato anche nel meno convincente tentativo di usare in chiave comedy gli Zombie, The Odd Family: Zombie on Sale, forse a voler sfruttare anche in Corea l’incredibile successo sia in Giappone sia in tutto il mondo di One Cut of the Dead (in Italia, Zombie contro Zombie).
Ed è il Giappone a regalarci anche quest’anno il film di esordio sorpresa. Si tratta di Melancholic di Tanaka Seiji, film davvero acclamato il secondo giorno del festival nell’orario proibitivo delle 14:50, e che avrebbe probabilmente ricevuto più voti se proposto in orario serale. A premiarlo ci ha pensato la Giuria per il Gelso bianco all’opera prima (White Mulberry Award) composta da Freddy Bozzo del Festival di fantasy di Bruxelles, Mattie Do, unica regista donna del Laos, e Giovanna Fulvi, programmatrice di cinema asiatico per il Toronto International Film Festival dal 2002. Nelle motivazioni delle Giuria si sottolinea il basso budget del film e il lavoro raffinato di scrittore di un regista che si propone soprattutto come sceneggiatore e diplomatosi negli USA, avendo come modello soprattutto Woody Allen. Dal Giappone, ritorna ancora una volta anche Yamashita Nobuhiro, nel 2006 con Linda, Linda, Linda e dieci anni dopo, nel 2017, con ben tre film, My Uncle e Over the fance, entrambi del 2016, e Rumblers, un film tratto da Manga come questo Hard-Core, pubblicato dal 1991 al 1993 e diventato di culto, storia di assoluti perdenti, con pesanti ironie sulle derive fascistoide della cultura nipponica.

Dare to stop us di Shiraishi Kazuya

 

E a ricordarci che la grande storia del cinema dell’estremo oriente viene dal Giappone è Dare to stop us di Shiraishi Kazuya, un omaggio a Wakamatsu Konji, il Roger Corman nipponico mitico protagonista della nouvelle vague giapponese, autore prima di film di genere pink (porno soft) volutamente commerciali, e dopo di film militanti, con la “dichiarazione di guerra mondiale” della sua Armata Rossa. A dirigere il film è Shiraishi Kazuya, uno dei registi più interessanti sulla scena indipendente giapponese, che sceglie come protagonista di questo biopic un personaggio apparente minore, una delle aiuto registe e produttrici esecutive di questa famiglia ribelle della Wakamatsu Pro, ancora attiva e produttrice del film stesso. Si tratta di Yoshizumi Megumi, che si suicidò dopo essersi scoperta incinta, in conflitto con la propria femminilità e che era giunta poco prima alla regia con un porno di trenta minuti destinato ai Love Hotel. Un film “girato alla francese” (con camera a spalla) che aveva suscitato l’invidia dello stesso Wakamatsu. Il film è una ricostruzione convincente, anche se rischiosa e sempre sul bilico dello stereotipo. Resta necessario e utile come piccola lezione di cinema, sui limiti del presente e le sue ambizioni ancora da rinnovare. A noi ci piace immaginare che ci siano ancora cineasti che al motto di “Provate a fermarci!” sfidino ancora censura e pubblico. Lo abbiamo visto fare a Fruit Chan con il guerrilla filmmaking di Three Husbands, che per noi resta il vincitore morale di questa 21.ma edizione del Far East Film.