Il coraggioso cinema degli anni ’20. Un monito al presente dalle Giornate del Cinema Muto di Pordenone

Le Giornate del Cinema Muto, ossia come riscrivere la storia del cinema. In questa 37° edizione (6 – 13 ottobre) ricca di riscoperte, dopo un giorno e mezzo e una serata di pre apertura, se ne sommano già diverse, tutte o ancora annunciate per le future edizioni (Robert G. Vignola), o già arrivate a buon punto e con cicli di film nell’arco della settimana (John M. Stahl, Mario Bonnard, il cinema giapponese postsincronizzato). Ma la seconda giornata, per chi ha avuto la forza di resistere sino all’ultima proiezione delle 23:00 (si inizia alle nove del mattino e quest’anno le pause si sono ridotte a un’ora appena per il pranzo e poco per la cena) ci fa prefigurare un’altra possibile, futura, riscoperta, quella di James Cruze, solo se un giorno si riuscissero a trovare, dei film da lui diretti, almeno quelli considerati i migliori (uno fra tutti Hollywood del 1923). In apertura e qui sotto immagini tratte da The Mating Call.

 

 

Prodotto nel 1928 da Howard Hughes, negli anni che già vedevano affermarsi il sonoro, The Mating Call  di James Cruze ci viene riproposto in una sezione curata personalmente da Kevin Brownlow per festeggiare i cinquant’anni della pubblicazione di The Parade’s Gone By, il libro pubblicato nel 1968 che più di tutti ha segnato e messo in moto i film studies. Sintesi di un percorso avviato sin da quando era studente, per maniacale passione (o “magnifica ossessione”), il libro fu solo la prima tappa per altri libri, documentari e restauri, primo tra tutti quello che già l’aveva segnato ancora minorenne quando era corso a incontrare Abel Gance marinando la scuola, il restauro simbolo per eccellenza, quello di Napoleon (con cui esordirono anche le Estati Romane nella storica proiezione nel 1981 al Colosseo per un pubblico di cinquemila persone). The Mating Call (alla lettera “richiamo d’amore”) mette insieme nello stesso film due temi che ricorrono prepotentemente se si guarda al cinema americano degli anni ’20; da una parte l’emergere di una femminilità senza più argini e che non si nasconde dietro alcun moralismo, e dall’altra, ma non disgiunto, un attacco violento alle divisioni di classe nascoste dietro il velo del conformismo sociale. Anche oggi dagli USA ci arrivano segnali di grosso impegno e allarme, ma tutti in difensiva (si pensi a BlacKkKlansman di Spike Lee o American Dharma di Errol Morris). Contrariamente alla stagione del cinema classico e poi del dopoguerra, qui le donne non hanno bisogno di essere fatali, come il genere noir dovrò fare, riaprendo un segnale di liberazione, ma “al negativo”.

 

 

 

Negli anni del maccartismo saranno relegate a essere buone mogli e vivere di isterie, casalinghe disperate come ancora oggi vediamo e non solo nelle serie tv (lo erano anche Thelma e Louise, ed è tutto dire). Il personaggio di Evelyn Brent è invece sfacciatamente sessuale nei suoi approcci, vuole il suo uomo indietro, e sa che lui si sta facendo problemi perché lei dopo tre anni di guerra e un matrimonio segreto, ancora minorenne, si è vista annullare l’unione ed ha dovuto accettare un matrimonio di combinato dalla sua famiglia. Lei non tenta alcuna giustificazione con il suo primo amore tornato dalla guerra, nemmeno quella che il marito ha un amante. E non lo fa per vendetta, e non lo fa nemmeno per disperazione. Si sente libera di farlo, per la propria felicità. Un diritto alla felicità che ritroviamo anche nel secondo personaggio femminile, quello interpretato da Renée Adorée, che viene sposata dal protagonista solo per convenienza, andando lui ad Ellis Iland a scegliere una famiglia destinata al rimpatrio forzato (come si vede gli agganci con la nostra attualità non mancano davvero). Una scena forte e straziante, dove sembra di assistere a un mercato del bestiame e si taglia con l’accetta la discriminante di classe e razziale. Discriminanti di classe di cui è vittima anche il nostro protagonista, Thomas Meighan, negato a lei da giovane perché un semplice contadino. La disinvoltura sessuale di lei è ovviamente legata al censo, ma la giovane moglie immigrata si dimostrerà avere altrettanto carattere. Da principio nel rifiutarsi di essere usata sessualmente, solo per farsi carico della propria famiglia, portata con sé in fattoria come condizione per accettare di sposarlo, e in seguito reclamando ciò che ogni donna vuole, avere anche lei un uomo non solo da servire, com’è ancora suo costume fare, ma anche di cui godere. Il finale non ci dice quali delle due donne avrà la meglio, perché non interessa, interessa il loro diritto a lottare. Quella stessa lotta tra i sessi che in modo netto viene dichiarata dalla protagonista di Sowing the wind di John M. Stahl, del 1921, o che vede battersi a difesa di una prostituta il protagonista del film di apertura Captain Salvation di John S. Robertson, del 1927. Quello incapace di lottare qui è solo l’uomo, il maschio, in particolare il nostro protagonista. Sarà la sua prima moglie a chiedergli da cosa è imprigionato, se non si sente libero di amarla, con tutta la pienezza sessuale di cui il film è carico. “Hai paura dell’Ordine?” le chiede e così scopriamo che, seppur sostituiti da cappucci neri, qui si parla del Klu Klux Klan, forse il primo a farlo dopo l’agiografia celebrativa del Klan ad opera di David W. Griffith (Nascita di una nazione, e ancora ci torna in mente Spike Lee). Howard Hughes aveva già avuto problemi con la censura per il suo The Racket di Lewis Milestone, il primo film su Al Capone per il quale entrambi ricevettero minacce di morte. Dimostrerà lo stesso coraggio con questo film (paradossalmente piaciuto ai suoi tempi anche ai fautori del Klan, ma questo ci apre ad altre considerazione sul potere delle immagini). In quegli anni il Klu Klux Klan faceva quattro milioni di aderenti, ci racconta Kevin Brownlow nella ricca scheda sul film del catalogo aggiungendo che “nessun settore della società era completamente libero dalla presenza del Klan”.Processi sommari, omicidi, intromissione nella vita privata, malefica presenza – oggi con effetti comici – con i loro cappucci neri immobili sullo sfondo delle case e dei loro usci. Un vento di oppressione che spirava insieme a uno libertario. Oggi sentiamo solo il primo.