Il Paradiso perduto di Antonio Viganò: il teatro che mostra da vicino la nostra ombra

La ribalta è la parte anteriore del palcoscenico sporgente sotto l’arco scenico verso la sala. È quello spazio liminare che si getta sul pubblico: il più in luce, ma anche quello che si affaccia sull’abisso. È dunque una questione di distanza, meglio di prossimità, che il Teatro La Ribalta pone ancora una volta, con questa nuova, coerente produzione diretta da Antonio Viganò, con grande pertinenza ospitatata alla Cucina Olinda di quello che fu il Paolo Pini, a inaugurare la rassegna Da vicino nessuno è normale. Un ex ospedale psichiatrico accoglie una compagnia di attori professionisti, abili e disabili, straordinari, e il loro “teatro della diversità” (senza vittimismo o ricatto alcuno, ma con una potenza espressiva lancinante e indelebile), alle prese questa volta con un testo horror, in cui la mostruosità primigenia prodotta dall’uomo nel Frankenstein di Mary Shelley incontra la dannazione del Paradiso perduto di John Milton, con sullo sfondo l’ombra deforme del Riccardo III shakespeariano, transitano dalla poetica contaminata e contagiosa di questa compagnia unica, dal suo gioco di prossimità (toccante e pericolosa) con il pubblico e le sue ombre, centrando temi imperituri e attualissimi.

 

 

Già spettacoli come Otello Circus (il dramma del Moro rielaborato in un tendone da circo ristretto) o Un peep show per Cenerentola (la fiaba del desiderio al tempo spietato dei talent e dei reality, incastonato in 16 voyeuristiche cabine) coinvolgevano il pubblico molto da vicino. In questo Paradiso perduto lo spazio scenico pare un teatro anatomico (con)fuso a una sala parto, racchiuso fra due gradinate platea. Ma è anche un ring, che spezza ossa e sprizza sudore. Gli spettatori sono convocati per assistere al mistero della vita e della morte, della creazione e della distruzione, della cattività e della cattiveria. Un’incubatrice al centro della scena culla un bebè, un incubo sta alla radice del progetto (osceno) di creare la vita dall’inanimato. È evocato da un cerimoniere scuro, storyteller che fatica a dire e corteggia l’abisso («Molto meglio la notte» dichiarerà a un certo punto). Campane scandiscono il rito, con pene, di venire al mondo per scienza, hybris e assembramento, battesimo di onnipotenza («L’imprevisto è bandito») in cui la creatura è eugeneticamente “ben fatta”, cucita a puntino, fra ago, filo e ineludibile agonia.

 

 

«Io non ho paura delle tue ferite» diceva Desdemona del suo Otello sofferente. Qui le fa eco rovesciata una delle ancelle di questo rituale macabro e misterioso che, con un forcone minaccioso in mano, dichiara: «Io non ho paura, io faccio paura». La dimensione orrorifica del racconto permette di andare a fondo. Gli stilemi del genere si fanno simboli potenti: bamboline inquietanti, urli muti, bastoni su “bastardi”, fili che suturano, corde che appendono, stringhe che ci muovono come burattini e fanno capitolare, specchi che incastrano nel narcisismo, de-formano nel compiacimento e condannano alla ripetizione, sassolini nella scarpa e pietre d’inciampo (scandali), luci che illudono, illuminano e ingannano, in forma di casa protettiva, finestra/minestra, luna solitaria, di fuoco della conoscenza e della coscienza. In un mondo che s’incendia e promette devastazione, le profezie sono scritte a vuoto nel terreno, utopie distopiche.

 

 

I versi del “diverso”, le sue unghie trascinate sul pavimento, le sue cicatrici, del corpo e dell’anima, il suo disequilibrio intrinseco e umano, la prigione dei tic e del marmo, costituiscono gli elementi base di una danza che pare materia viva estratta da un quadro di Francis Bacon, alla quale l’interpretazione di Paolo Grossi, fisicamente provante, imprime una livida verità. La mostruosità sociale è raccontata dalla crudeltà del rifiuto, dalla violenza sul difforme, dallo sguardo giudicante e crudele, dalla pedagogia della vergogna, del diniego e della cattiveria. Unica eccezione pare chi, per condizione, può sottrarsi momentaneamente alla dittatura dello sguardo: è il cieco l’unico che “incontra” la creatura, ne ascolta e vede i (bi)sogni, quasi che il riconoscimento non possa che passare attraverso l’equivoco, la profezia (come in Gesù che scrive nella sabbia) attraverso una parola muta e invisibile, impronunciabile. E l’immagine finale, che riporta in scena l’incubatrice, ci ricorda la ciclicità tragica della vicenda umana, in cui ogni sogno di purezza e perfezione porta accovacciato sotto di sé il mostruoso miracolo dell’imprevisto e la sua aberrazione. Sotto le luci della ribalta, alberga l’ombra. E il corpo vivo di questo teatro riesce a raccontarne i contorni e gli orridi. È lì, in fondo, nel buio della sala, che abitiamo.

 

 

Foto di Luca Del Pia

 

Spettacolo visto a Teatro La Cucina, 13-15 giugno