Dedicare l’intera edizione di un premio come il Tenco a un solo autore che non sia Luigi Tenco stesso, nel cui nome nacque nel 1974 (due anni dopo la creazione del Club), poteva destare perplessità, perfino causare un certo disorientamento; farlo con un personaggio di eccezionale carisma come Francesco Guccini, che ancora vive ed è stato presente a ogni appuntamento della kermesse, poteva risultare ingombrante. In realtà tutto ha funzionato benissimo: la rassegna ha vissuto una scossa importante proprio nell’anno in cui finalmente tornava alla destinazione originale e naturale dell’Ariston per le serate, mentre ha trovato nuova (e si spera definitiva) sede operativa nella ex stazione ferroviaria di Sanremo, certamente da ingentilire e migliorare ma degna di essere chiamata casa. L’unica pecca della Rassegna della Canzone d’Autore 2015, a voler essere pignoli, sta nel non aver aperto, come di consueto, con Lontano, lontano…, inno tenchiano di grande potenza evocativa, sostituito dalla gucciniana Auschwitz, peraltro magistralmente eseguita da Vittorio De Scalzi con il supporto del magico violino di Mauro Pagani. Certo, il paragone con Guccini risulta ingombrante: una vetta probabilmente impossibile da scalare per chiunque, oggi, in Italia. Ma se la geniale sintesi tra testi e musiche di molti lavori del songwriter di Pàvana (sì, anche le musiche: sovente sottovalutate nel Guccini degli esordi, si sono fatte più raffinate e complesse di album in album; ma in realtà erano già perfette nella loro essenzialità anche quando sembravano semplici) resta un traguardo irraggiungibile, può allo stesso tempo costituire uno stimolo per tutti coloro che in Italia ancora credono nella canzone di qualità.
Magari può apparire un po’ oscuro, per il gusto italico, il Premio per l’artista alla britannica Jacqui McShee; ma scorrendo l’albo d’oro si trovano, nel corso degli anni, parecchi riconoscimenti all’innovazione, non sempre confortati da un ampio consenso di pubblico: ed è indubbio che la performer in questione abbia il merito di aver rivestito le canzoni della tradizione folk inglese con sonorità rinnovate, oltre che di possedere doti vocali straordinarie. Sostanzialmente azzeccate quasi tutte le Targhe agli artisti italiani, in un anno in cui gli organizzatori hanno evidenziato la lotta agguerrita in molte categorie, anche se probabilmente è mancato il disco o il pezzo che resta scolpito nella memoria. Il mio stile, che ha fatto vincere a Mauro Ermanno Giovanardi la targa per il miglior album, non è il top raggiunto in carriera da quello che fu il frontman dei La Crus, ma resta un lavoro eccellente per confezione, impeccabile per esecuzione, notevole per il livello dei brani. Che si ispirano a Léo Ferré nella title track; ma volano comunque alto, conservando un poco delle atmosfere morriconiane che impreziosivano Ho sognato troppo l’altra notte?, anche con il gospel di Se c’è un Dio, con l’accento flamenco di Aspetta un attimo, con il mood asciutto e malinconico di Nel centro di Milano. Il fatto poi che Giovanardi abbia battuto la concorrenza di Paolo Benvegnù (Earth Hotel), Fabi/Silvestri/Gazzè (Il padrone della festa) e soprattutto, di una Carmen Consoli in gran spolvero con un album (L’abitudine di tornare) decisamente rock nel sound ma con testi importanti, grintosi e ispirati, conferisce valore ancora maggiore al riconoscimento. Echi di Nick Cave, di anni Sessanta, di chansonniers dalla voce notturna e di cantanti confidenziali dal timbro pastoso: molti i richiami, ma la strada di M. E. Giovanardi è inconfondibile, ormai dominata da una cifra stilistica personalissima. Interessante pure il modo in cui si esprime il siciliano Cesare Basile, che si è portato a casa per la seconda volta in tre anni il premio per l’album in dialetto (ma il titolo è in italiano:Tu prenditi l’amore che puoi e non chiederlo più). Non mi hanno invece convinto fino in fondo, perlomeno sul piano della combinazione tra scrittura esuoni, i due fratelli cremonesi de La Scapigliatura, che hanno conquistato il riconoscimento per l’Opera prima con l’album eponimo, trovando per la verità acclamazioni dalla platea dell’Ariston. I brani che hanno vinto ex aequo il premio per i singoli, Il senso delle cose di Cristina Donà e Saverio Lanza, e Le storie che non conosci di Pacifico e Samuele Bersani, non sono memorabili: ma qui la concorrenza non era fortissima e le interpretazioni appassionate dei due improvvisati connubi le rendono meritevoli di considerazione. Bella, intensa, avvolgente infine, la maniera in cui i Têtes de Bois hanno reso Extra, brano di Léo Ferréé (19161993), indimenticato chansonnier monegasco vissuto a lungo in Italia, che sta destando un rinnovato interesse nei cantautori delle generazioni più o meno recenti (anche Paola Turci pare intenzionata a pescare dal suo repertorio) dopo aver affascinato quelle degli anni Sessanta e Settanta. Fuori dalla competizione, ha impressionato per qualità vocali e tenuta del palco la giovane brianzola Vanessa Tagliabue Yorke, già nota in ambienti jazz, che accompagnata dall’Orchestra di Sanremo diretta nell’occasione da Vince Tempera, ha incantato con la proposta di alcuni pezzi di Guccini, infiammando il pubblico, che ha invocato a gran voce bis che solo la rigida scaletta imposta dallo storico conduttore Antonio Silva non ha permesso. Impressioni favorevoli pure dal campano Giovanni Truppi, che è stato presentato come un mostro di tenacia per gli svariati tentativi (falliti) di cantare al Tenco, ma che sul palco sanremese è piaciuto più che altro per la profondità un po’ triste dei testi che ha proposto con la sua chitarra. Lunga vita al Tenco, allora: resta un luogo e un appuntamento necessario per bilanciare derive (troppo) popolari e dare spazio a chi mette cura in ciò che scrive. A discapito, ma neanche sempre, del mercato e delle sue regole.