VicoQuartoMazzini: La ferocia del turbocapitalismo

«L’incomprensione del presente nasce fatalmente dal passato.»

Marc Bloch

 

Michele Altamura e Gabriele Paolocà, «due anime gemelle» che hanno creato la compagnia VicoQuartoMazzini, dirigono e interpretano La ferocia, dal romanzo di Nicola Lagioia vincitore nel 2015 del Premio Strega e del Premio Mondello. Autori dell’adattamento insieme a Linda Dalisi, sono affiancati sul palco da Roberto Alinghieri, Leonardo Capuano, Gaetano Colella, Enrico Casale, Francesca Mazza e Andrea Volpetti. La storia è quella della famiglia Salvemini, guidata da Vittorio, un costruttore pugliese che si è fatto da sé e ha conquistato il mondo con i suoi cantieri. La misteriosa morte della figlia Clara rimette in discussione dinamiche familiari e di potere. Bari, la Puglia, il Mezzogiorno, l’Italia: uno spettacolo che parla del nostro presente, indagando il lato ferino dell’essere umano soprattutto quando è in una posizione di potere. Abbiamo incontrato Gabriele Paolocà.

 

 

Deve essere stata una sfida non indifferente portare a teatro il romanzo di Nicola Lagioia.

È stato un lavoro lungo, nato nel 2015, quando abbiamo letto La ferocia. La compagnia è pugliese, Michele è originario della provincia di Bari, io sono un romano che è emigrato al Sud. Fin da subito ci ha intrigato la possibilità di raccontare quel Sud che abitiamo, in una maniera diversa, non scontata, non stereotipata, non da cartolina. Una storia che potesse essere portavoce di quel Sud e della sua tragicità e violenza, quel Sud che conosciamo tutti, ma che nessuno vuole nominare. Da questo punto di vista abbiamo visto una grande storia, uno di quei soggetti che ci appassiona. Con Michele rivendichiamo il fatto di essere attori, ci siamo formati come tali e quindi cerchiamo sempre grandi storie da interpretare perché amiamo stare sulla scena, ma al contempo abbiamo spesso sentito la carenza – da parte della drammaturgia italiana contemporanea – di storie scritte bene che potessero raccontare il presente. Quando ci è capitata questa storia tra le mani, abbiamo avuto un’intuizione, abbiamo capito che le componenti c’erano tutte, c’era la modalità tragica di raccontare la famiglia in un determinato modo, il rapporto micro-macro, la storia di un imprenditore e la sua sfrenatezza che poteva essere la metafora di un turbocapitalismo al suo capitolo finale. C’erano tante potenzialità e quindi piano piano ce la siamo costruita per bene. Sapevamo che era un’operazione imponente e infatti anche la produzione è massiccia, costruita negli anni.

 

 

Come avete lavorato con Linda Dalisi?

Linda è una grande archeologa della parola, un’intellettuale che ama le sfide di questo tipo, ama infilarsi in queste storie complesse per trarne fuori il dramma. Con lei abbiamo fatto un lavoro al setaccio, come lo chiama lei, abbiamo passato al setaccio tutto il romanzo e quello che ne è uscito fuori era l’oro giusto da raccontare. Lei si è messa a disposizione, capendo quali fossero le nostre esigenze narrative e insieme abbiamo indirizzato il romanzo. Per esempio lei ha avuto l’idea del funerale con la madre che fa tutte le citazioni degli amanti di Clara. Paradossalmente quella è stata una delle prime intuizioni e attorno a quella modalità di scrittura abbiamo costruito tutto il resto. La regia è quasi nata insieme al riadattamento. È stato un lavoro bellissimo per noi, è la prima volta che lavoriamo su un romanzo.

 

Clara è a tutti gli effetti un personaggio in assenza, una morta molto presente: tutti si rivolgono a lei.

Fa parte delle intuizioni di cui parlavo: è stato un escamotage drammaturgico che ci ha dato la possibilità di non fare il romanzo raccontato a teatro che tante volte abbiamo visto e tante volte non ci è piaciuto, ma di creare un discorso diretto. La scrittura di Lagioia presenta intriganti approfondimenti sui singoli personaggi che abbiamo trasformato in monologhi e poi reso dialoghi personali e intimi che ognuno ha con Clara.

 

 

Avete anche scelto di dare maggiore spessore rispetto al romanzo al giornalista, che diventa una sorta di narratore e racconta la vicenda a posteriori.

Ci sono tante cose che vogliamo far emergere attraverso questo personaggio. In primis è un omaggio a Nicola Lagioia, al tipo di lavoro che fa come intellettuale, come scrittore, ma anche come podcaster, ma poi c’è anche un nostro omaggio a tutti i grandi narratori del Sud che hanno attraversato il 900 – primo fra tutti Alessandro Leogrande – che hanno sempre provato ad andare contro i Salvemini che trovavano sul loro cammino. Proprio perché conosciamo benissimo la materia che trattiamo ci sembrava utile anche drammaturgicamente perché la vicenda familiare è portata avanti dai personaggi, mentre il giornalista porta avanti l’inchiesta vera e propria. Estrapolare quel personaggio ci ha concesso il doppio piano narrativo. Inoltre, in una storia così drammatica, ha tirato fuori qualcosa di buono, un’inchiesta, che fa vedere il marcio, ed è un nostro modo per dare una nota di positività in una storia così nera e cupa.

 

Interessante il lavoro sugli spazi dove le piante, con il procedere della vicenda, prendono il sopravvento e trasformano tutto in una palude.

La mala pianta che all’inizio compare come pianta di arredamento in fondo alla villa prende possesso della casa a mano a mano che la componente della ferocia attraversa tutti i personaggi ed emerge com’è veramente accaduto il fatto. Lo spazio si impaluda, da lussuoso e borghese diventa l’habitat perfetto per delle bestie feroci. Peraltro quella è la pianta del canneto che è la pianta infestante per eccellenza, cresce lungo i fiumi, assorbe l’inquinamento… L’utilizzo dello spazio che facciamo nasce dal fatto che siamo una compagnia indipendente che non ha mai avuto una lira e che quindi nel momento in cui faceva una scelta di scenografia, quella doveva essere la sintesi perfetta. Paradossalmente quella carenza economica è diventata un nostro punto di forza: il fatto di saper lavorare nella sintesi e nella metafora viene anche dall’impossibilità di realizzare tutti i nostri sogni. È affascinante per noi vedere come in un impianto più sostanzioso dal punto di vista produttivo continuiamo a portare il germe della nostra poetica, che è quella di costruire con poco e in quel poco riuscire a costruire un universo.

 

 

Dal punto di vista temporale passato e presente coesistono e si intersecano…

Nel romanzo di Nicola questo aspetto è predominante, e paradossalmente può disorientare. È una storia che lui racconta buttando il lettore dentro un vortice dove passato e presente e futuro si mischiano e per noi anche questo aspetto è diventato un punto di forza. Abbiamo deciso di raccontare con chiarezza il fatto fin dalle prime prove: ogni attore doveva riportare esattamente come erano andate le cose, poi nella costruzione dei monologhi si entrava in un vortice temporale in cui non si capiva dove ci si trovava. Penso in particolare al monologo di Annamaria, la madre, un vero esercizio di stile sul tempo, in cui lei mischia passato e futuro, parla alla Clara bambina e alla Clara morta e al contempo parla al Michele neonato che arriva a casa e le distrugge la vita e allo stesso tempo dice “sta tornando ancora”. Solo il teatro può portarti in quell’ambiguità di spazio e tempo.

 

Il tappeto sonoro dello spettacolo merita un discorso a parte: il suono è molto presente e a tratti volutamente opprimente, rendendo perfettamente l’inquietudine che si prova.

Sull’aspetto sonoro c’è un mondo da raccontare. Pino Basile è un grande esperto di strumenti del Sud del mondo. Quello che si sente è stato principalmente realizzato con dei cupa cupa, strumento molto arcaico la cui membrana è bucata al centro e contiene una cannetta che, bagnata ripetutamente e mossa su e giù, crea un suono cupo e profondo. Basile addirittura li costruisce di note diverse e fa delle composizioni suonandone parecchi contemporaneamente (qui). Invece per i fischi e il vento utilizza fischietti simili a quello che uso io in scena (quello viene dalla cultura del materano, dove la Puglia si incontra con la Basilicata: si tratta di fischietti votivi che venivano venduti fuori dalle chiese). Anche quelli li suona e li modifica. Ha sempre a che fare con uno sguardo verso il Sud non stereotipato, uno sguardo che potesse essere feroce, violento perché sono suoni che richiamano ambientazioni molto legate alla natura, Pino è geniale perché poi li rende musica elettronica. Siamo dei grandi fan del tappeto sonoro.

 

Nicola Lagioia è stato coinvolto in qualche modo?

Assolutamente no. Lo abbiamo intercettato dicendogli che avremmo voluto fare questa follia. Ci ha detto: «Va benissimo, basta che non mi tiriate in mezzo». Il lavoro di riduzione del testo con Linda è durato un paio d’anni, poi abbiamo incontrato Nicola a Roma quando avevamo quasi una stesura finale, quella con cui saremmo andati a provare con gli attori. Lui l’ha letta, approvata, gli è piaciuta, gli siamo piaciuti noi, è stato tutto molto organico, bello, Nicola è il grande intellettuale che non ha bisogno di pavoneggiarsi, è di un’umiltà disarmante. Ci ha detto: “Mi fido di voi, l’intuito mi ha detto di fidarmi”. Ed eccoci qui.

 

Foto di Francesco Capitani

 

VicoQuartoMazzini

Cuneo      Teatro Toselli        11 febbraio 2024
Torino      Teatro Gobetti     13-18 febbraio 2024
Firenze    Teatro Florida      23-24 febbraio 2024
Milano     Teatro Fontana    27 febbraio-3 marzo 2024
Lugano     Lac                           26-27 marzo 2024