Pochi giorni fa se n’è andato Robbie Robertson, una delle pietre angolari della storia del rock. Un gigante che ha attraversato decenni di storia della musica prima accompagnando, con The Band, la rivoluzione di Bob Dylan e poi costruendosi una carriera da solista e da autore di colonne sonore (il suo ultimo lavoro è stata l’ennesima collaborazione con Martin Scorsese per Killers Of The Flower Moon). Ha sempre guardato alle sue origini divenendo un punto di rifrimento per i Nativi. Non sorprende che il il suo manager Jared Levine abbia dichiarato: «Al posto dei fiori, la famiglia chiede donazioni per la Six Nations of the Grand River, per sostenere la costruzione del loro nuovo centro culturale». Ecco 10 notizie che ci raccontano qualcosa della grandezza dell’autore di Music for the Native Americans.
1) Jaime Royal Robertson era nato il 5 luglio 1943 a Toronto. Suo padre, un giocatore d’azzardo professionista ebreo di nome Alexander David Klegerman, è morto in un incidente stradale prima che lui nascesse. Sua madre, che si è risposata, era un membro della tribù dei Mohawk. Robbie, fin da ragazzo, ha studiato a fondo la cultura e la musica dei Nativi. Al punto di diventare un esperto della narrazione orale nella Riserva delle Sei Nazioni. Nella sua autobiografia, Memory (2016), commenta ironicamente la sua eredità indiana ed ebraica: «potresti dire che sono un esperto quando si tratta di persecuzione». Ha iniziato suonando la chitarra nelle band delle scuole superiori e poi si è unito a un gruppo guidato da una star del rockabilly dell’Arkansas, Ronnie Hawkins. Qui ha conosciuto i membri principali di quella che sarebbe diventata The Band.
2) Oltre A Robbie, in The Band c’erano il batterista Levon Helm, il bassista Rick Danko, il pianista Richard Manuel e il tastierista Garth Hudson. In realtà tutti i componenti del gruppo erano polistrumentisti e talenti eccezionali. La band è rimasta insieme otto anni dopo il loro album di debutto, Music from Big Pink, (1968), ma ha lasciato un segno profondo grazie alla sua elegante semplicità, riuscendo a sposare folk, country e rock con l’idea di appoggiarsi alle tradizioni della narrazione e al “senso del luogo”, in aperto contrasto con il suono psichedelico emergente negli anni ’60. Robbie ricordava: «Eravamo immersi nel gospel, nella Mountain music, nel migliore blues, nel più fantastico rock’n’roll. E intanto Garth Hudson ci faceva scoprire le meraviglie della musica classica…» Robertson non prese parte al ritorno in attività dal 1983 al 1999.
3) Nel fondamentale rapporto The Band – Dylan, Robbie Robertson ha giocato un ruolo da protagonista assoluto come si evince da The Bootleg Series Vol. 11: The Basement Tapes Complete. The Band ha influenzato profondamente la pop music negli anni ’60 e ’70, dapprima amplificando letteralmente la transizione polarizzante di Dylan da artista folk a rockstar e poi assorbendone le opere e le influenze mentre modellava un nuovo suono immerso nella storia americana. Da notare che è Robertson a suonare la chitarra elettrica nel seminale Blonde on Blonde (1966).
4) Robbie era un raffinato compositore, basta ascoltare canzoni immortali come: Chest Fever, The Weight, The Night They Drove Old Dixie Down, Up on Cripple Creek, King Harvest Has Surely Come, Life Is a Carnival…Lui è l’anima di The Last Waltz il concerto finale della band, tenutosi nel 1976 all’arena Winterland di San Francisco e divenuto il fulcro del film di Scorsese del 1978 e un album doppio di grande successo. Nella serata erano presenti Bob Dylan, Neil Young, Joni Mitchell, Dr. John, Neil Diamond, Eric Clapton, Muddy Waters, Van Morrison, Emmylou Harris, Ron Wood, Paul Butterfield, Ringo Starr.
5) The Last Waltz ha anche dato inizio a una lunga collaborazione tra Robertson e Scorsese. Da Toro scatenato in avanti, Robbie ha collaborato alla colonna sonora di tantissimi film, fra gli altri: Il colore dei soldi, Casino, Shutter Island, Silence, The Wolf of Wall Street, The Irishman, Killers of the Flower Moon. Il musicista ha raccontato nel documentario della PBS Shakespeares in the Alley che la loro amicizia si è cementata perché: «quando ci siamo conosciuti siamo rimasti svegli molte notti a confessarci che eravamo un musicista e un regista frustrati, in difficoltà. Da lì viene la nostra unione».
6) «Molto prima che ci incontrassimo, la sua musica ha avuto un ruolo centrale nella mia vita e in quella di milioni di altre persone in tutto il mondo. La musica della band, e la successiva musica da solista di Robbie, sembravano provenire dal luogo più profondo nel cuore di questo continente, dalle sue tradizioni, dalle tragedie e dalle gioie che hanno forgiato l’America». (Martin Scorsese).
7) Robertson ha sempre affermato che il cinema è stato fondamentale nella sua formazione. Per The Weight e la scrittura di altre canzoni ha riconosciuto di avere un debito nei confronti di Luis Buñuel e del suo modo di trattare i temi del sacro e del profano. Nel documentario della PBS ammette che il modo di affrontare il tempo sullo schermo si è riverberato nella sua musica:«volevo scrivere musica che desse l’impressione di essere stata scritta cinquant’anni prima, ieri o domani. Questa qualità di porsi fuori dal tempo è molto cinematografica».
8) Nel 2019 Daniel Roher ha scritto e diretto il documentario Once Were Brothers: Robbie Robertson and The Band che si basa su Memory di Robertson. E quindi legge la storia con gli occhi di Robbie che appare come l’unico che tenta di salvare The Band dalla cocaina, dall’alcol, dalla indisciplina. Robertson era tossico come gli altri ma era l’unico ad essere conscio che continuando in quel modo non ci sarebbe stato nessun futuro per il gruppo. La separazione ha lasciato una scia di veleno: Levon Helm nella sua autobiografia This Wheel’s on Fire accusa Robertson di essersi approfittato della situazione acquistando i diritti delle canzoni in cambio di (poco) denaro. Com’è andata veramente non si saprà mai dato che Richard Manuel si è suicidato nel 1986, Rick Danko è stato tradito dal cuore nel 1999, Helm se n’è andato nel 2012. Ci sarebbe Garth Hudson (grandissimo musicista classico prestato al rock) ma da vero eroe americano ha fatto perdere le sue tracce. Nel documentario ci sono testimonianze, fra gli altri, di Bob Dylan, Bruce Springsteen, Eric Clapton, Van Morrison, Martin Scorsese, Taj Mahal, Peter Gabriel, David Geffen, Ronnie Hawkins.
9) La discografia da solista di Robbie Robertson è formata da sei album: Robbie Robertson (1987), Storyville (1991), Music for the Native Americans (1994), Contact from the Underworld of Red Boy (1998), How to Become Clairvoyant (2011), Sinematic (2019). L’esordio è un solido disco di canzoni, prodotto da Daniel Lanois, ci suonano gli U2, Peter Gabriel, i reduci della Band Hudson e Danko; Storyville è un omaggio New Orleans, partecipano Neil Young, Ginger Baker e la famiglia Neville; Music for the Native Americans è un capolavoro assoluto (nato come colonna sonora del documentario televisivo The Native Americans), 12 tracce per riscoprire le proprie origini e dare voce ai Nativi americani, l’autenticità dell’operazione è assicurata dal gruppo Red Road Ensemble, Robertson ci mette rigore, amore, intensità; con Contact from the Underworld of Red Boy si parte dalla musica aborigena canadese per dare spazio a Leonard Peltier attivista in carcere dal 1976; in How to Become Clairvoyant Robertson incrocia chitarra e voce con Eric Clapton, una traccia di malinconia nei testi e una musica impeccabile che guarda al passato; l’ultimo lavoro, Sinematic ha il sapore del bilancio anche per la presenza di
10) Dopo giorni di silenzio Bob Dylan ha rilasciato una breve dichiarazione a Melinda Newman di Billboard: «questa è una notizia scioccante. Robbie è stato un amico per tutta la vita. La sua scomparsa lascia un vuoto nel mondo». Bruce Springsteen nel concerto del 9 agosto al Wrigley Field di Chicago, a poche ore dalla diffusione della notizia della morte di Robbie Robertson ha omaggiato l’amico da poco scomparso. Lo ha fatto intonando I’ll see you in my dreams: «la dedico al mio buon amico Robbie Robertson», ha detto il Boss.