Catherine Corsini: La fracture (della società) e le molte contraddizioni della Francia di oggi

Tornata in concorso a Cannes dopo vent’anni (l’ultima volta c’era stata nel 2001 con La répétition – L’altro amore) Catherine Corsini con Parigi – Tutto in una notte (La fracture) interpretato da Valeria Bruni Tedeschi, Marina Foïs, Pio Marmaï e Aissatou Diallo Sagna che mette a confronto due mondi tra loro lontani, la borghesia e i gilet gialli, per parlare della situazione attuale della Francia e le tante ingiustizie sociali ed economiche. Una spaccatura, la “fracture” del titolo, per cui non si ha una soluzione, ma che va affrontata anche con humour. Il film è stato molto ben accolto alla proiezione ufficiale e Catherine Corsini in conferenza stampa ha sottolineato che con La fracture ha voluto «cercare di cancellare i pregiudizi per provare a guardare le persone in un altro modo» con un tono leggero perché «la risata è catartica e permetta alle persone di riunirsi e di ridere delle stesse cose».

 

 

 

La Francia di oggi
Cercavo un film che ponesse gli interrogativi che mi faccio a proposito di una società che trovo sempre più dura, spaccata. Mi sono chiesta: Come parlare del mondo oggi? Quando avevo 18 anni ero impegnata, credevo che tutti sarebbero stati migliori, più solidali, ero una ragazza piena di sogni e oggi mi domando, invece, che cosa lasciamo ai nostri figli. Un mondo marcio, per questo bisogna reagire, parlarne e lo sguardo che posso avere su queste cose non può che essere lo sguardo di una persona privilegiata, per questo ho scelto questa posizione perché altrimenti non sarebbe stato onesto. E ho voluto farlo con humour per non essere didascalica e dire questo è bene, quello è male. È un film che mi assomiglia e assomiglia molto alla coppia che formo con la mia produttrice Élisabeth Perez poiché l’idea del film è nata andando a cena da Bénédicte Darblay, la sceneggiatrice del film, per un compleanno. Non ci sono mai arrivata perché per strada mi sono rotta il gomito e sono finita al pronto soccorso. Non ho vissuto la stessa notte di Raf, il personaggio interpretato da Valeria Bruni Tedeschi, ma alcune cose che si vedono nel film ci sono.

 

 

Lo sguardo delle persone
Volevo che il personaggio di Raf non avesse sempre ragione, che potesse anche essere attaccato. Penso che da come le persone si guardano, le cose succedono perché lo sguardo degli uni verso gli altri si trasforma, e nel film avviene anche grazie a questo luogo che è il cuore, il polmone del film, l’ospedale. Vedere persone di ambienti e provenienze diverse, alcune che arrivano per problemi gravi, altre per cose meno gravi, tutta una popolazione che si ritrova e fa sì che ci siano tutti questi incroci.

 

Prendersi cura
La notte che ho passato in pronto soccorso ho osservato molte persone e situazioni e sono tornata più volte in seguito per arricchire il film, per immergermi in questa arena: è un luogo talmente pieno di umanità, di disperazione e allo stesso tempo è il luogo della cura, un luogo straordinario. Volevo restituire l’emozione di vedere gli infermieri curare i pazienti: a volte sono sgradevoli, altre non hanno tempo, altre ancora sono molto attenti e questa cosa è meravigliosa ed è talmente preziosa. È una peculiarità francese il fatto di avere un ospedale pubblico che garantisce a tutti di essere presi in carico e di essere curati ed è vero che oggi – quando ho fatto il film c’era già la crisi, persone in sciopero, una situazione allo stremo – con il Covid risuona ancora più forte perché l’ospedale è stato applaudito per le infermiere e i medici e poi si è smesso di applaudire ma la crisi continua. Ho visto giovani che lavorano negli ospedali e sono pagati con salari da fame e che in più finiscono in burn out talmente le condizioni sono difficili.

 

Le riprese in piena pandemia
Ci sono un sacco di cose che non abbiamo potuto fare. Ci hanno impedito di girare alle manifestazioni, poi dovevamo girare con le mascherine, per la direttrice della fotografia è stato un incubo, non poteva vedere la faccia delle persone, doveva sempre chiedere di abbassare le mascherine, anche per gli attori è stato complicato. Ma, forse, nello stesso tempo questa situazione ha creato un’energia particolare, abbiamo girato in una finta location dove alla fine abbiamo concentrato tutto. Con la mascherina – che ho portato sempre – c’è qualcosa che non si esprime, non si mostra, è come se avesse riportato del pudore, gridavo più forte del solito per farmi sentire, ma ero anche obbligata a lavorare molto con gli occhi, c’era un’energia che faceva dire che ogni giorno era un giorno portato a casa. Eravamo nelle condizioni di un cluster straordinario perché eravamo rinchiusi in non so quanti in un ambiente chiuso con persone che tossivano e sputavano, questo ha creato qualche tensione, ma eravamo come un’isola, ci ritrovavamo per lavorare e, malgrado la situazione, c’era qualcosa di estremamente gioioso e vivo.

 

 

Gilets jaunes
Ho letto, ascoltato interviste, tutto quello che era possibile riferito ai gilet gialli. Mi sono immersa sia nell’ospedale che nel loro movimento, incontrando, grazie ad amici, dei manifestanti. Quello che ho trovato di meraviglioso in questo movimento è l’idea della rotatoria, questi luoghi che non servono a niente sono diventati luoghi di incontro di persone che prima non uscivano di casa e improvvisamente si ritrovavano. È un movimento con momenti molto gioiosi, succedevano delle cose, assomiglia così tanto alla Franca insurrezionalista che allo stesso tempo è ipersolidale, ipercalorosa: si tratta di persone la cui preoccupazione è il lavoro, poter lavorare in condizioni migliori e non ritrovarsi con 600-700-800 euro di pensione. Noi in tanto che bobo parigini possiamo permetterci di fare a meno della machina, ma quando abiti in un posto sperduto della Provenza non è così semplice… Volevo semplicemente mostrare tutte queste contraddizioni.