Dieci anni fa ci lasciava Robert Altman, poco dopo aver realizzato Radio America, grazie anche a Paul Thomas Anderson, che collaborò come aiuto regista per sostenere l’ultima fatica del maestro. Da allora siamo orfani del più iconoclasta fra tutti gli iconoclasti lasciati in eredità dalla New Hollywood: un gruppo di registi colti e nutriti di controcultura che tra la metà degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta cambiarono il business cinematografico determinando il passaggio dal sistema controllato dai produttori a un nuovo sistema centrato sugli autori, iniettando nel cinema americano una scossa di freschezza, energia, entropia, eterodossia, libertà, sessualità. Erano talvolta esuli in patria, anticonformisti, ribelli, dissidenti e soprattutto erano giovani, perciò capaci di entrare in comunicazione col pubblico che gli Studios stavano perdendo. Così improvvisamente divennero la chiave di volta della sopravvivenza del cinema americano.
Nato nel 1925 a Kansas City (la città dell’alcol e del jazz cui tornerà sempre volentieri), esordiente a metà degli anni Cinquanta con un film sulle gang giovanili (The Delinquents) e un documentario su James Dean (The James Dean Story), passato poi per più di un decennio alla televisione, dove diresse episodi di serie mitiche come Alfred Hitchcock presenta, Bonanza e Combat!, Altman divenne famoso nel 1970, con M.A.S.H., che vinse inaspettatamente la Palma d’oro a Cannes. Da allora, con il suo lavoro, prima a Hollywood, poi fuori da Hollywood (negli anni Ottanta) e infine di nuovo a Hollywood a partire dagli anni Novanta, ha continuato a sconvolgere schemi narrativi e miti del cinema (e della cultura) statunitense attraversandone uno a uno tutti i generi, in una costante affermazione di indipendenza e con risultati espressivi sempre imprevedibili e spesso geniali: il bellico (M.A.S.H.), il western (I compari, Buffalo Bill e gli indiani), lo psicoanalitico (Images, Terapia di gruppo) il noir (Il lungo addio), il gangster (Gang), il musical (Nashville, Una coppia perfetta), la fantascienza (Quintet), il fumettistico (Popeye), il politico (Secret Honor), il sentimentale (Follia d’amore), il teen (Anche gli uccelli uccidono, Non giocate con il cactus).
E intanto costruiva un modello, un marchio di fabbrica inconfondibile: la coralità, la moltiplicazione dei personaggi (e conseguentemente delle linee narrative). 27 in M.A.S.H., 24 (più l’invisibile ma onnipresente candidato presidente) in Nashville, 50 in Un matrimonio, 25 ne I protagonisti, 30 in America oggi, 32 in Pret-à-porter, 40 in Gosford Park. Insieme ai personaggi, proliferavano le piste sonore (8, poi 16, poi ancora di più), che Altman ascoltava e registrava per poi scolpire in fase di missaggio una colonna audio traboccante di dialoghi in overlapping, che insieme ai piani sequenza e agli zoom sui dettagli contribuiscono a dare quell’idea di caos controllato che tanto caratterizza il suo cinema. Un cinema brulicante, proliferante, aperto, che – diceva lo stesso Altman di America oggi, il suo capolavoro – «potrebbe continuare per sempre, perché è come la vita». Perché la vita, sempre eccessiva nel senso che eccede (e in questo modo trascende) con la sua infinità la finitezza della finzione, corre libera e inafferrabile fuori campo. Perché, parafrasando Robert Musil (un romanziere che, come Altman, ha tentato di forzare e aprire i confini del genere entro cui si muoveva), il cammino della storia (e della finzione narrativa) non è come quello di una palla di biliardo, che una volta partita segue una certa traiettoria, ma somiglia al continuo sbandamento di un girovago che, sviato qua da un’ombra, là da un gruppo di persone o da una facciata strana, arriva infine in un luogo che non conosceva e dove non aveva deciso di andare.
Ci sono due scene di Radio America che, anche se questo non fosse stato l’ultimo film di Altman, ci consegnano il suo testamento spirituale. Quella in cui il texano Axeman (l’uomo-scure, ma anche, per assonanza con ass, l’uomo-asino o l’uomo-culo/l’idiota dell’era Bush Junior), visitando il Fitzgerald Theatre di St. Paul (Minnesota), che ha comprato coll’intenzione di smantellarlo per farne un parcheggio, passa davanti al busto bronzeo di Francis Scott Fitzgerald e beato domanda: “Chi è?”. Quella successiva in cui la biancovestita Donna Pericolosa, ormai rivelatasi un pietoso Angelo della Morte, seduce l’acquirente beota e lo porta ignaro con sé, inducendo lo spettatore a sperare che il vecchio teatro e tutto ciò che contiene (il busto dello scrittore, il programma radiofonico A Prarie Home Companion che lì si produce, ovvero la quintessenza della cultura americana, elitaria e popolare) possano essere salvati. Un testamento accorato e impietoso allo stesso tempo, con quella miscela di adesione sentimentale e precisione entomologica dello sguardo che solo questo regista amato, temuto, odiato dall’America degli ultimi cinquant’anni ci ha saputo regalare. Ma la presunta eliminazione di Axeman, così come, a ritroso, l’assassinio di Sir William alla fine di Gosford Park, la morte di Johnny alla fine di Kansas City, quella dell’anonima biondina alla fine di America oggi, quella di Billy alla fine di Streamers, via via fino a quella di Barbara Dean alla fine di Nashville, non hanno una funzione liberatoria, non gettano sugli intrecci formicolanti di Altman la luce retrospettiva e riorganizzante degli epiloghi tragici: nessuna catarsi, nessun alleggerimento della coscienza, nessuna morale a buon mercato, nessuna consolazione in extremis. La nitidezza implacabile della visione resta intatta fino all’ultimo istante, compensata solo dal sorriso che talvolta accompagna la messa in scena della fragilità o dall’ironia che affiora nella rappresentazione della mediocrità e della bassezza. È inevitabile che il Fitzgerald Theatre e il glorioso programma country che ha ospitato per più di trent’anni chiudano i battenti: non c’è alcun modo di opporsi all’oblio che seguirà all’ultimo spettacolo se non il gesto estremo, romantico, grottesco e insieme inutile, di Guy Noir, che mette in salvo il busto di Fitzgerald. Ed è proprio il personaggio di questo stralunato ex-detective cui Altman, insieme al compito di narrare la storia, affida la sua memoria, e lo fa come di consueto schermandosi e alleggerendo il peso della sua eredità velandolo di irresistibile autoironia. Dopo che un’antenna radio persa nel nulla ci ha informato sui prezzi dei maiali castrati, sul modo di preparare lo stufato ai funghi, sull’imminente fine del mondo, sulla psicologia degli innamorati rifiutati e sul traffico locale, la voce di Guy, su un suadente sottofondo di musica jazz (un ennesimo ritorno all’origine), evoca mondi e atmosfere lontane (“Una notte tranquilla in una città che sa mantenere i suoi segreti”): quelli del cinema classico, ancora sorretto dall’illusione di poter catturare la realtà e di poterla spiegare riconducendola a modelli prestabiliti. Di quei mondi e di quella magnifica illusione non resta che un simulacro, vuoto e buffo: un personaggio stinto (Guy significa semplicemente “un tipo”) che fa il verso a un tipo cinematografico del passato (il detective del noir anni Quaranta) e richiama un altro personaggio in cui Altman molti anni prima aveva immortalato una volta per tutte il suo amore per il cinema classico, guardato da lontano come un paradiso irrimediabilmente perduto: il Philip Marlowe de Il lungo Addio.