Fabrizio Tassi ci introduce al festival “Aquerò – lo spirito del cinema”

Nasce per dare forma all’idea di realizzare un luogo di visioni e riflessioni sulle rappresentazioni dell’invisibile nel cinema. Si tratta di Aquerò – lo spirito del cinema, un festival dedicato al “cinema dello spirito” e allo “spirito del cinema” organizzato da Acec Milano. La prima parte si svolge a Milano, poi altri dieci eventi in cinque sale di Carugate, Cesano Boscone, Cesano Maderno, Gallarate e Magenta. Un festival “diffuso e itinerante” che propone anzitutto nove appuntamenti nell’Auditorium San Fedele, da venerdì 9 a domenica 11 febbraio. Strutturato in tre sezioni Radici, Ricerca, Riflessioni, tra opere classiche da riscoprire, film da rileggere, esperimenti e anteprime, gli spettatori potranno entrare in dialogo con numerosi ospiti: critici cinematografici come Paolo Mereghetti e Giulio Sangiorgio, filosofi e studiosi come Silvano Petrosino, Roberto Mordacci, Marco Vannini, un poeta come Davide Rondoni, teologi ed esperti di estetica come Giuliano Zanchi e Andrea Dall’Asta. Il tutto impreziosito dalla partecipazione di registi e attori come Eugène Green, Riccardo Scamarcio, Pippo Delbono, Pasquale Scimeca, Cosimo Terlizzi, Paola Pitagora. Abbiamo incontrato Fabrizio Tassi, direttore artistico del Festival.

Le fils de Joseph di Eugène Green

 

In un mondo dominato dal consumo, che sembra non avere bisogno di ieri né di domani, in cui le abitudini, come scriveva Seneca “immobilizzano le cose” e paralizzano le persone, sorprende la scelta di scommettere su un festival cinematografico dedicato allo spirito. Un progetto ambizioso e una ideazione atipica, articolata su diverse sale cinematografiche che sembrano scardinare le abitudini. Dove e come è nata questa idea?

Da una chiacchierata con un prete. Si chiama don Gianluca Bernardini ed è il responsabile di Acec Milano. Ci conoscevamo da ragazzi e ci siamo ritrovati quasi per caso un paio d’anni fa. Pur avendo storie di vita e sensibilità differenti, ci unisce una convinzione: l’idea che oggi più che mai ci sia un bisogno irresistibile diffuso, confuso, anche segreto, che evochiamo con la parola “spiritualità”. Qualcosa di cui a volte quasi ci si vergogna, in questi tempi orgogliosamente cinici e depressi, in cui “l’assenza di scopo e di senso” viene ostentata eroicamente, come si trattasse di una palestra in cui esercitare il proprio ego. Quel bisogno, che riguarda l’essenza dell’uomo, a volte si incarna nelle pratiche di una religione, a volte invece rimane vago e inespresso. Ecco, in questo festival volevamo parlare anche di questo, del richiamo esercitato da qualcosa che ci supera e che tutti percepiamo, al di là di ciò in cui crediamo o non crediamo.

 

Aquerò è la parola utilizzata da Bernadette di Lourdes per indicare “quello/a”, l’apparizione a cui non riusciva ancora a dare un nome. Una parola in dialetto occitano, semplice, quotidiana, per indicare qualcosa di straordinario, miracoloso. L’invisibile che si fa immagine. Il cinema mette in scena la presenza di un’assenza. Come avete scelto i film e gli ospiti di questa prima edizione?

Abbiamo scelto film che provano a incarnare l’invisibile, che sono consapevoli di tutto ciò che eccede l’immagine, che non si limitano a “fotografare la realtà” ma si mettono al servizio della sua misteriosa complessità, che sembrano conoscere la differenza che c’è tra guardare le cose e vederle per davvero. Per provare a stabilire un qualche “confine”, siamo partiti dai classici (Bresson e Dreyer) e abbiamo recuperato alcuni film degli ultimi trent’anni che ci sembravano emblematici per ciò che stiamo cercando (e quindi film poco conosciuti di Herzog, Sokurov e Bressane, ma anche Malick, Assayas e Kim Ki-duk). E poi siamo andati alla ricerca di due categorie di film inediti: quelli che propongono una ricerca anche formale, ed esplorano i confini del cinema, come l’incredibile Jeannette di Bruno Dumont (immagine in apertura, ndr), Le fils de Joseph di Eugène Green, Vangelo di Pippo Delbono; come l’approdo alla fiction di Cosimo Terlizzi, che in Dei mette il suo straordinario talento al servizio di una storia di formazione apparentemente semplice, in realtà profondissima. Poi ci sono i film che guardano l’altra faccia della realtà, che declinano lo spirituale come “fede nell’uomo”, e stanno coi piedi rigorosamente per terra, per vedere meglio, tipo Balon o Pane dal cielo.

Dei di Cosimo Terlizzi

 

Una delle dimensioni essenziali del cinema, che lo distingue dalle altre arti, è quella di rappresentare la realtà attraverso la realtà. Guardare un film è un’esperienza che ri-guarda la vita perché, come ricorda Alain Bergala, il cinema possiede quella speciale singolarità di aprire lo sguardo dello spettatore di abbattere le paure dell’alterità, di farlo uscire “da se stesso” e proiettarlo in un mondo nuovo, diverso. Scrive a proposito il cineasta e professore francese: «La paura dell’alterità porta spesso ad annettere un territorio nuovo a uno vecchio, in modo colonialista, scorgendo nel nuovo soltanto ciò che già si sapeva vedere nel vecchio. Ora il cinema ha esattamente la vocazione contraria: farci condividere esperienze che, senza il cinema, ci resterebbero precluse, consentirci l’accesso all’alterità». Cosa significa per uno spettatore confrontare il proprio sguardo con il cinema spirituale?

Significa diverse cose. A partire da quella più elementare, che riguarda in qualche modo l’essenza del cinema: ricordarsi che c’è sempre qualcosa che va oltre l’immagine, che sta accanto, dietro, tra un’immagine e l’altra, perché forse la sostanza delle cose sta proprio lì. Quell’idea, un po’ naïf, che per fare cinema e dire qualcosa di importante sul mondo, la realtà, l’uomo, basti accendere la macchina da presa, inquadrare “quella cosa”, dire “quelle parole”, è ancora ampiamente diffusa. Ma «lo specifico filmico è ciò che nel film non può essere descritto» (Barthes), a noi interessa la risonanza dell’immagine e il cinema che cerca il “fuoricampo interiore”. E questo al di là del fatto che un film persegua lo “stile della trascendenza”, austero, basato sulla stilizzazione e la fissità, quello che sembra cercare più platealmente tracce di una qualche verità “soprannaturale”, o lo “stile dell’incarnazione”, che si dedica all’uomo e alle sue vicende quasi abbandonandosi alla realtà, per ritrovare un rapporto diverso con le cose, più puro, diretto, originario più che originale.

 

Cassirer parla «dell’aggrovigliata trama dell’umana esperienza» quasi riferendosi al dramma unico dell’umano che non sembra coinvolgere altri esseri viventi. La dimensione spirituale interpella l’umano. In essa assistiamo a un ribaltamento di prospettiva: la ricerca umana mossa dal desiderio di senso traduce la domanda che ciascun umano è. Guardare un film può diventare un’esperienza spirituale?

Qualsiasi cosa può diventare un’esperienza spirituale, è qualcosa che ha a che vedere con l’esercizio della consapevolezza, l’attitudine all’ascolto, lo spalancamento dei sensi, della mente, del cuore. In particolare il cinema, anzi il buon cinema (quello cattivo in realtà acceca) è un’occasione straordinaria per sperimentare la differenza che c’è tra guardare le cose per abitudine, noia, pregiudizio, e provare a vederle per davvero, nella loro evidenza, qui e ora. Mi piace ricordare anche la distinzione che Marion faceva tra l’idolo e l’icona. L’idolo basta guardarlo per conoscerlo, si esaurisce nel fatto di essere guardato, nella soddisfazione superficiale dello sguardo. L’icona invece chiama lo sguardo a superarsi, rende visibile l’invisibile, chiede allo sguardo di salire «di visibile in visibile sino al fondo dell’infinito». Il cinema che ci interessa è questo.

Balon di Pasquale Scimeca

 

www.spiritodelcinema.it

9-11 febbraio                     Milano          Auditorium San Fedele

12 febbraio – 20 marzo  Carugate, Cesano Boscone, Cesano Maderno, Gallarate, Magenta