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Giulia Bean: Cabe, a Vhs Elegy, quando la memoria personale diventa collettiva

Un’opera prima estremamente personale, «un’elegia per un essere ancora vivo», questo è Cabe, a Vhs Elegy che la giovane danzatrice e coreografa Giulia Bean (classe 1993) ha dedicato al padre Carlo, il Cabe del titolo, a dieci anni dalla sua scomparsa. Partendo dalle 349 videocassette che l’uomo ha lasciato, Giulia Bean costruisce un percorso sulla memoria in cui si interroga sul rapporto padre-figlia e sull’identità, per un discorso che dal personale si fa collettivo. Lo spettacolo, che si avvale della drammaturgia di Chiara Braidotti e della cura del movimento di Vittoria Guarracino, è prodotto dal CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia e, dopo l’anteprima milanese al Pim Off, sarà in scena a Udine. Abbiamo incontrato Giulia Bean.

 

 

 

Come ti sei avvicinata alla mole di videocassette registrate da tuo padre?

Sono davvero tantissime… E non erano contrassegnate da titoli, ma da numeri perché mio padre teneva tutto annotato in un taccuino che è andato perso quando è mancato. La scorsa estate, armata di due videoregistratori e di un televisore mi sono messa a sbobinare: andavo avanti, capivo di che film si trattava e, su un mio quaderno, annotavo i titoli. Ho rivisto tutte le cassette ed è stato molto complesso, però ora so cosa contiene ognuna.

 

E cosa contiene?

Al di là delle registrazioni dei film più disparati (si va da Pasolini a Woody Allen, da Kurosawa a Orson Welles, ma ci sono anche i cinepanettoni, Balle spaziali…), ci sono quattro o cinque filmati personali come il suo compleanno, una partita a tennis con gli amici, alcune gite con mia madre sotto cui, per sbaglio o volutamente, sono registrati anche audio di film o musiche. Per esempio, sotto la partita di tennis ci sono i Pink Floyd, subito dopo lui inquadra gli amici e c’è un dialogo di Blade Runner. Diciamo che hanno una forma ibrida, molto pop.

 

 

Nello spettacolo ci sono le videocassette in scena, ma non si vede nessuna immagine di film.

È così, in scena vengono proiettate diapositive di famiglia, scattate dal nonno fotografo, il padre di Carlo Bean. Ci sono immagini di lui da bambino fino alle più recenti che ho trovato, in cui c’è mio padre con me che avevo 2-3 mesi. È divertente… tra mio padre e mio nonno sembro provenire da una famiglia di archivisti. In scena abbiamo un lettore di diapositive e volutamente abbiamo cercato di essere il più analogico possibile, quindi non ci sono videoproiettori o l’uso di chiavette usb o dvd.

 

Qual è stata la molla che ha fatto scattare il desiderio di fare uno spettacolo a partire da questo materiale?

Era una cosa che sentivo da un po’ di tempo, sapevo che c’erano le videocassette in cantina ma non mi ero mai spinta a guardarle. Poi c’è stata una serie di eventi: ero appena tornata da un lungo tirocinio in Repubblica Ceca, volevo lavorare su un progetto mio, avevo molte idee, stavo traslocando, bisognava capire se tenere o buttare queste videocassette… Anche il lavoro con la psicologa è stato molto importante per dare il giusto peso alla figura di mio padre. È dovuto passare realmente del tempo prima di affrontare tutto questo, solo un anno fa sarebbe stato impensabile.

 

Come hai lavorato alla costruzione dello spettacolo?

Abbiamo fatto degli incontri residenziali che abbiamo chiamato “Think ALONGside the box” in cui ponevamo delle domande ai partecipanti per indagare il legame padre-figlia, cercare delle idee comuni o anche solo un’immagine collettiva d’identità della figura del padre in relazione alla figlia. Per esempio una delle domande era: «Con che gesto descriveresti tuo padre?» o ancora: «Che memorie corporee hai di lui?». Una parte dello spettacolo è appunto dedicata agli “Altri padri”, quindi a gesti o movenze estratte da ricordi narrati durante gli incontri, come una particolare stretta di mano, una carezza sulla fronte… gesti che vanno oltre il personale. In realtà lo spettacolo è aperto, ognuno ci si può riconoscere, non è un’elegia solo per mio padre, ma abbraccia un immaginario collettivo. E poi c’è anche la questione dell’essere figlia…

 

 

 

In scena ci sei tu, ma ci tieni a sottolineare che Cabe è un lavoro collettivo…

Essendo un lavoro molto personale non sarebbe stato possibile svilupparlo senza uno sguardo esterno. Da una parte Chiara Braidotti come dramaturg ha curato l’aspetto narrativo e divulgativo del progetto, facendomi le domande giuste. Allo stesso modo Vittoria Guarracino è stata uno specchio fondamentale del movimento, sapendo portare il mio corpo nella direzione giusta per il lavoro. Diciamo che sono sola in scena ma non mi sono mai sentita sola, tra le cassette, le diapositive e con Chiara e Vittoria in regia. È stato un lavoro molto artigianale da questo punto di vista, nel senso che entrambe non sono rimaste confinate nei loro ruoli, ma sono andate oltre anche a livello spaziale, di immagine, a livello musicale, in qualsiasi aspetto hanno messo mano insieme a me. Siamo figure ibride, proprio come una cassetta su cui è stato registrato sopra qualcos’altro. Naturalmente siamo state affiancate da figure professionali nella realizzazione di costumi e scenografia a partire dalle nostre idee.

 

Un’ultima, inevitabile, domanda: i film registrati ti hanno permesso di conoscere meglio tuo padre?

[Ride] Non so se voglio risponderti… Diciamo che una possibile risposta la puoi trovare nello spettacolo, ma non penso che la leggeremmo allo stesso modo. Sicuramente ho ritrovato molto di lui, ho avuto conferme, ma ci sono stati anche momenti che mi hanno sorpreso. È mancato dieci anni fa, io ero piccola ma ero già un’adolescente nella fase della costruzione della sua identità. Penso che queste cassette abbiano contribuito a creare la visione di un padre più eclettico, più poliedrico, non solo come figura genitoriale ma come essere umano nella sua complessità.

 

 

Milano   Pim Off   16 gennaio

Udine    Teatro S. Giorgio   26 gennaio