Il cacciatore con le parole di Michael Cimino

Oggi è l’ultimo giorno per poter vedere in sala Il cacciatore di Michael Cimino nella splendida versione restaurata in 4K. Nel 1979 Il cacciatore è al Festival di Berlino. Per protesta contro il film definito “reazionario e  contro i vietcong” la delegazione sovietica ritira i propri film e subito la seguono i paesi del Blocco, Věra Chytilová e  Pál Gábor lasciano la giuria. Rivisto oggi il clima di allora e molte recensioni appaiono imbarazzanti. Per altro le polemiche sono state irrilevanti rispetto al successo del film (costato 15 milioni di dollari ne ha incassati oltre 50 solo in Usa e ha vinto anche 5 premi Oscar). Comunque Cimino si è battuto per mesi in difesa della sua opera. Ha partecipato al dibattito con molte interviste. Da Positif, New York Time, Washington Post, Film Comment, Le Monde abbiamo tratto una serie di dichiarazioni del regista.

 

 

I personaggi
Nella maggior parte dei film contemporanei vi sono due o tre personaggi principali, qui ne avevo almeno una mezza dozzina. Per permettere al pubblico di conoscerli abbastanza bene e senza che se ne rendesse conto, in modo sottile, bisogna accordare loro un minimo di presenza sullo schermo; non ci si accorge che i personaggi vengono rivelati attraverso il matrimonio, ma invece è proprio questo che accade. Del resto se non si prova nulla nei confronti dei personaggi, la stessa esperienza militare non acquista alcun significato reale, profondo. La funzione della prima ora del film è di farci condividere la loro vita, prima di farci condividere il loro incubo.

 

La sceneggiatura
Prima dell’inizio delle riprese ci sono state 6 versioni differenti della sceneggiatura. Non finivo mai di modificarla mentre preparavo il film: è stato un processo molto difficile. Gli attori li ho scelti soltanto dopo avere terminato il copione e ho avuto fortuna perché tutti gli attori del film sono stati quelli cui avevo pensato fin dall’inizio. Abbiamo fatto il casting a New York e non a Hollywood perché volevamo dei volti non troppo noti, come Christopher Walken e John Savage. Nel film vi sono pochi attori professionisti, la maggior parte dei ruoli secondari sono ricoperti da persone prese dalla strada.

 

 

La battaglia con i produttori
I produttori temevano assolutamente tutto di questo film, le scene di guerra, il matrimonio, la tortura, la caccia, la conclusione, la violenza dell’insieme. Non c’è scena che non li abbia messi in atroce imbarazzo. Li ho combattuti aspramente, utilizzando ogni sotterfugio. Tagliavo quello che volevano e di notte ce lo rimettevo: è stata una vera guerra, ancora più violenta di quella del Vietnam!

 

Michael sono io
Quando si scrive un film ci si divide un po’ fra i personaggi, ma mi sono identificato soprattutto con Michael. Michael ha delle reticenze verso i suoi amici, è un leader naturale, è un uomo di princìpi, ha un’etica di vita ben definita, che esprime del resto quando parla di caccia, quando parla dell’unico colpo. Si sente spesso tra i cacciatori dell’importanza dell’uccisione “pulita”, fatta secondo le regole. Michael ha un’affinità spirituale con il cervo. Non si è mai un buon cacciatore se non si è la preda stessa, se non ci si identifica col cervo. Tenta di condividere la sua etica con uno degli amici, ma il suo tentativo fallisce. Non può tenerla per lui solo, ma non la può realmente condividere.

 

 

La roulette russa
La roulette russa non è la metafora del suicidio di una nazione, è un mezzo per drammatizzare l’elemento casuale che sussiste in qualsiasi guerra. Non c’è motivo perché muoia un uomo piuttosto di un altro. Ho voluto comprimere l’esperienza quotidiana del combattimento e questa attesa permanente della morte, questa impossibiltà di calcolare le probabilità di sopravvivenza. Non mi sorprende che in ciò si legga una metafora e non vi vedo alcun inconveniente ma è una forma di tensione e di pressione costanti che alla lunga distrugge gli uomini. Anziché simboleggiare lo psichismo di un’intera nazione, ho voluto risolvere il problema di esprimere nel minor tempo possibile l’orrore della lotta. Tre ore non sono sufficienti per esprimere tutto questo e io lo faccio in trenta minuti perché l’illusione del film comprime questa impressione di vissuto, si vede molto meno di quanto si crede di vedere. Penso che queste scene durino in tutto due bobine. Questo esprime un anno di incertezza di un soldato al fronte, che attende ogni minuto che una bomba gli scoppi vicino.

 

In Thailandia
Le scene nella capanna vietcong sono state lunghe e difficili. A quello stadio delle riprese la troupe era esausta. Eravamo sul fiume Kway, 5 chilometri a nord del famoso ponte birmano. Le scene di Saigon sono state girate a Bangkok, che, dal punto di vista architettonico, è la città più simile a Saigon del sud-est asiatico, dato che non potevamo girare in Vietnam. Il fiume era gelido, l’aria cocente e noi restavamo in piedi nell’acqua quasi tutto il giorno. Gli attori non erano professionisti: li avevamo scritturati sul posto in Thailandia e non parlavano né inglese né vietnamita. Ogni comunicazione doveva passare attraverso tre lingue, senza contare il linguaggio dei segni! Inoltre non vedevamo i giornalieri e per mesi non abbiamo saputo cosa abbiamo girato. La Emi temeva che, se ci avessero rimandato le pellicole stampate, le autorità thailandesi potessero sequestrarle.

 

 

L’inverno d’estate
Con Vilmos Zsigmond abbiamo deciso che le tre parti avessero un aspetto visivo diverso. Abbiamo dovuto mettere molta attenzione alle sequenze in esterni girate in Usa, in quanto le scene invernali sono state filmate in estate. Non avevamo un gran margine per girare perché fu una delle estati più calde del secolo. Dovemmo togliere le foglie dagli alberi per suggerire l’inverno e non c’era modi cambiare idea all’ultimo momento, dato che ogni inquadratura doveva essere preparata con una settimana d’anticipo. Due troupe lavoravano 24 ore su 24 per preparare il paesaggio invernale e se si modificava l’angolatura della macchina da presa, ci si ritrovava in piena estate. Abbiamo sperimentato diversi modi di solarizzazione e di esposizione. Per le sequenze del Vietnam abbiamo desaturato l’immagine in laboratorio, arrivando fino a 5 stampe successive.

 

Il paesaggio
Abbiamo percorso 400mila chilometri in treno, aereo, auto, per trovare gli esterni. Tutti questi viaggi hanno costituito una strana esperienza. Per me il paesaggio è un attore del film, agisce sullo spettatore anche se lui non se ne accorge. Sono sempre sensibile al genio di un luogo. Per me deve avere una qualità spirituale, un valore nuovo e diverso. Sin dall’inizio abbiamo girato in piano sequenza per conservare unito il gruppo, perché lo spettatore partecipi all’esperienza, perché non sia distratto dal montaggio.

 

 

God Bless America
Ero cosciente che la scena finale con il canto di God Bless America si sarebbe prestata a interpretazioni differenti. Quando le persone in un momento di crisi o di stress, si rivolgono automaticamente verso cose familiari e quando, nell’incapacità di esprimere la loro tristezza, ritrovano qualcosa che avevano imparato a memoria nell’infanzia, non c’è da parte mia alcuna ironia intenzionale. Sapevo che era una scena pericolosa e che sarebbe stata attaccata e forse odiata. Si tratta di un film molto personale, su dei rapporti personali, ma si può interpretarlo come si vuole e fargli dire (quasi) tutto ciò che si desidera. Il canto, anche se patetico, è un modo per affrontare un sentimento collettivo, soprattutto fra gli individui che non sono inclini a discussioni elaborate. Quando uno comincia, gli altri gli vanno dietro, confermando così l’amicizia che li lega , la fiducia che provano gli uni per gli altri. Il canto viene intonato da un mutilato e anche da un uomo letteralmente coperto di decorazioni, come se scaturisse dall’idea corrente di patriottismo…