Sulle Onde del festival di Torino con Massimo Causo

massimo-causo_011Per chi è sempre più insofferente verso il cinema mainstream, la sezione Onde del TFF rappresenta un approdo sicuro. Se desiderate incontrare sguardi nuovi e differenti, se formati, lunghezze e narrazione per voi non si devono trasformare in gabbie, se vi piace scoprire legami e consonanze fra i film, questa sezione fa per voi. Abbiamo sentito, Massimo Causo, il responsabile di Onde per farci guidare alla scoperta delle suggestioni che si celano dietro “diciotto film di metraggio vario, che rispondono, ognuno a suo modo, alla ricerca di un nesso distintamente espressivo e appassionatamente cinematografico tra la Storia, con i suoi eventi, e le storie, coi loro vissuti”. In apertura un’immagine da Sarah Winchester

 

Mi sembra che anno dopo anno Onde venga componendo un’esplorazione dell’evoluzione della narrazione filmica e visuale. A che punto siamo?

Se devo giudicare dalla selezione di quest’anno, avrei voglia di dire che è l’anno del contatto… Guardando insieme i titoli selezionati, a giochi fatti, è emerso come non mai un vero e proprio dialogo tra le spinte estreme dei giovani autori e la lezione dei grandi maestri del rinnovamento. Nei film di Onde 2016 ritrovi rimandi più o meno diretti o inconsci a figure come Rossellini e Robert Kramer, ma anche Straub (penso a Panke di Alejo Franzetti), Rivette (la coppia Dullius/Jahn di Muito Romántico), Antonioni (Le parc di Manivel), la New Wave taiwanese (Rita Hui di Pseudo Secular e l’esordiente giapponese Takehiro Ito di Out There). Per non dire di Joao Pedro Rodrigues che gioca buñuellianamente… Poi questo è sempre un gioco di rimandi che ha una sua dimensione soggettiva, è ovvio, e io per primo tendo a non farmi irretire troppo. Però va detto che quest’anno è talmente chiara la tendenza che mi sento di accettarla e spingerla. Quest’anno poi c’è un vero e proprio faccia a faccia tra autori che hanno già una loro storia (Green, Rodrigues, Kurosawa, Bonello, Kolirin, Nugroho) e giovani che si propongono con soluzioni già fortemente autoriali, mature, consapevoli. E anche questo sarà interessante verificare durante il festival, col pubblico e con gli autori stessi, che saranno, quasi tutti, presenti.

 

A crackup at the Race Riots
A crackup at the Race Riots

 

Il collettivo belga Leo Gabin è presente con due opere. Cosa dobbiamo attenderci?

Ecco, loro sono dei guastatori all’opera nel subconscio dell’immagine riflessa dai social. Tre artisti belgi – Lieven Deconinck, Gaëtan Begerem e Robin De Vooght – attivi dal 2000 tra installazioni, pittura, immagini varie, che hanno esposto in tutto il mondo, dall’America alla Cina. Stanno nella sfera del riciclaggio, tra found footage e found object art. Sono l’espressione di una ricerca che restituisce l’immagine alla sua fuga irrazionale, alla prospettiva di un filmare diffusivo che confluisce nel nostro subconscio. La colonizzazione dell’immaginario da parte della visione amatoriale perpetua, delle immagini onnivore che ci circondano. A crackup at the Race Riots omaggia impropriamente (citandolo qua e là) l’omonimo libro cult di Harmony Korine, affidandolo a uno streaming diffuso nella realtà. Una specie di diario senza soggetto, in cui ritrovi l’America che dopo aver votato Obama vota Trump, un horror postdistopico e iperrealista fatto da prankers, youtubers, coatti dell’autoscatto. Il tutto poi si ribalta magnificamente in Exit/Entry, che invece, con la stessa tecnica del POV da smartphone, descrive la tensione oggettiva di una paranoia urbana vestita da ossessione del complotto: divertentissimo e angosciante!

 

Qual è il legame fra Bonello e Kurosawa, autori con un loro percorso riconosciuto e gli autori giovani o esordienti presenti nella selezione?

Il legame è quello offerto dalla scelta di muoversi insieme, autori giovani e autori già affermati, lungo il cammino di un filmare che cerca un dialogo col cinema per stare nella tensione del presente. Per rispondere con un esempio alla tua domanda: Daguerrotype di Kiyoshi Kurosawa è un gotico asiatico all’europea, che lavora nella tradizione di Bava e Franju per produrre una riflessione sullo sdoppiamento tra l’individuo e la sua immagine, ed ha il suo perfetto contraltare nel film della giovanissima austriaca Sandra Wollner, The Impossible Picture, che elabora lo stesso discorso portandolo dal dagherrotipo di Kurosawa all’8mm di una ragazzina che, nel dopoguerra mitteluropeo, scopre il marcio della sua famiglia attraverso l’obiettivo della cinepresa avuta in eredità dal padre. Bonello, invece, che in Sarah Winchester: Opéra fantôme fa implodere l’ossessione claustrofobica del gotico nel chiuso di un teatro, potrebbe dialogare perfettamente con l’ossessione contemplativa silenziosa e fragorosa del nostro Carlo Michele Schirinzi, che in Eclisse senza cielo fa implodere la luce del cinema nei gesti di un artista salentino come Romano Sambati colto nel chiuso del suo studio…

Daguerrotype
Daguerrotype

 

Quali registi sorprenderanno gli spettatori con il loro linguaggio differente, estreicile dirlo, il dialogo tra spettatori e film in un festival è spesso imprevedibile ed è il motivo di maggiore curiosità e spesso gioia del nostro lavoro… Direi che la capacità di tracimare dal documentario alla finzione di una regista come la cinese Rita Hui potrebbe sorprendere non poco: il suo fluviale Pseudo Secular, con le sue tre ore a cuore aperto nelle mutazioni sociali e personali della Hong Kong del terzo millennio, è una sfida 1_backgroundnotevole. Ma anche il giapponese Takehiro Ito, altro giovanissimo in Onde, mette in gioco con Out There uno spiazzante ritratto d’adolescente tra realtà e finzione. E poi c’è Muito Romântico, con la dolcezza autobiografica non poco ironica della Berlino raccontata dai brasiliani d’esportazione Melissa Dullius e Gustavo Jahn…

 

 

Un grande come Garin Nugroho che sguardo ci proporrà?

Uno sguardo profondamente identitario, che elabora la fine del colonialismo in Indonesia nella forma di un melodramma scritto sulla dignità di una donna, interamente girato in piano sequenza e accompagnato da una colonna sonora eseguita da strumenti musicali della tradizione indonesiana. Il suo è un cinema che dialoga con le ragioni storiche e culturali della sua terra e mette in gioco una tensione filmica purificata nel gesto della tradizione. Siamo insomma nella linea del grande Opera Jawa.

 

Onde ArtRum conferma il legame fra cinema e arte? In che modo sta continuando il discorso?

È un dialogo prezioso con una realtà prestigiosa come la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, un ponte aperto ai tanti artisti che si esprimono attraverso opere filmiche. La linea di intervento scelta dal festival e dalla fondazione punta ad artisti che facciano cinema, piuttosto che videoarte, e questo è particolarmente evidente nella selezione di quest’anno che mette insieme la lucidità visionaria e strutturale mostrata da Yuri Ancarani in The Challenge, l’ironia futurista di Gabriel Abrantes e Ben Rivers in The Hunchback e la tensione storica e identitaria di Wu Tsang in Duillian. Tre perle da non perdere.