Mavis Staples, la voce che incantò Dylan. Sempre in marcia per la libertà

mavis-4Chissà se dopo il clamoroso Premio Nobel per la letteratura conferito a Bob Dylan ci saranno ricadute, nell’accesso dei media alla sua privacy. È pur vero che nell’eufemistica riservatezza del cantautore in parte ha già  aperto una piccola breccia Mavis!, il documentario HBO di Jessica Edwards passato nel 2015 al South By Southwest Film Festival (e che distribuirà da noi Wanted Cinema). Il punto esclamativo nel titolo è il correlativo grafico adatto ad esprimere l’energia trascinante e la coerenza artistica di Mavis Staples, nata a Chicago il 10 luglio 1939 (Dylan nel ’41). Chissà che forza della natura dev’essere stata circa cinquant’anni fa, quando Dylan le chiese di diventare sua moglie. Chi dei due si sia poi tirato indietro è affare controverso, ma anche poco rilevante. Ciò che serve ricordare è che Mavis Staples ha vissuto e vive in un effettivo – “Never Ending” – on the road. «Sono in tour da sessant’anni. Smetterò di cantare quando non avrò più niente da dire. E questo, lo sapete, non succederà mai» – dice lei nel film.

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Mavis iniziò a nove anni a cantare in chiesa (era così piccola che dovevano farla salire su una sedia per far capire da dove arrivasse quel vocione) con i fratelli Cleotha, Pervis e Yvonne e il padre Roebuck, detto “Pops”, che poi inventò The Staple Singers. Una formazione che mise presto in repertorio, oltre al gospel, anche A Hard Rain’s a-Gonna Fall. Il giovane Bob Dylan nutriva un’ammirazione per Pops, autore nel ’65 dell’inno di protesta Freedom’s Highway (There is just one thing/ I can’t understand my friend /Why some folk think freedom / Was not designed for all men). Nel ’66 Pops avrebbe inciso Why Am I Treated So Bad, con la stessa costruzione interrogativa che ha reso eterna Blowin’ In the Wind. Già raccoglitore di cotone nel delta del Mississippi, Pops si distingueva per la voce vellutata ma anche per l’effetto vibrato della sua Fender, e – come Dylan subì la contestazione della “svolta elettrica” – venne criticato dai puristi quando più tardi cercò di portare il gospel in territori più folk, soul, r&b. Da quella proposta di matrimonio Mavis Staples e Bob Dylan si sono incrociati sicuramente di nuovo nel 2003 per incidere una versione rivista di Gonna Change My Way of Thinking (compresa nella raccolta di cover Gotta Serve Somebody – The Gospel Songs of Bob Dylan). Ma ciò che fa più notizia è che la scorsa primavera, per promuovere il suo ultimo album Fallen Angels, Dylan le ha chiesto di accompagnarlo sui palchi (anche se bob-dylan-2016-mavis-staplesnon condividendo la scena). Non solo: Dylan compare in Mavis! per ricordare l’impatto che la voce di lei ebbe su di lui, quando la sentì alla radio, di notte, a 12 anni. «Gli Staples Singers erano diversi da tutti gli altri. Pops aveva una voce gentile, delicata, fluida, ma poi arrivava quest’altra voce, che poi ho scoperto essere quella di Mavis. Uno dei primi brani che ho sentito e che mi ha fatto rizzare i capelli si chiamava Sit Down, Servant. Dopo aver sentito quel pezzo sono rimasto sveglio una settimana». È proprio così: Mavis Staples ha una voce da contralto così profonda, energica e rough, per dirla con Dylan, cioè “ruvida”, “grezza”, da lasciare chi l’ascolta in dubbio su se sia femminile o maschile. Quello che non è in discussione è la sua immediata presa emotiva, prima ancora di soffermarsi sui testi, che parlano – oggi come ai suoi esordi – di segregazione, solidarietà, rispetto, pace, fratellanza. E prima di vederla muoversi su un palco. Sarebbe riduttivo definire Mavis Staples un’interprete e ogni definizione del suo approccio al canto è limitante e rischia di suonare goffo: Mavis si appropria della musica, la celebra, la innerva di elettricità. Il suo non è stile, è soul rauco, primordiale e vertiginoso.

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Avendo attraversato sei decenni di musica, Mavis Staples è fonte inesauribile di storie e di storia americana. Nel 1963 era a Washington alla marcia per i diritti civili. Gli Staples Singers furono invitati, unici afroamericani in un contesto di folk singers bianchi, al Newport Festival nel ’64, insieme a Joan Baez, Pete Seeger (e ovviamente Dylan). Hanno vissuto la discriminazione razziale, son stati in tour in Africa, hanno conosciuto Martin Luther King (il suo ultimo disco, Livin’ On A High Note, si chiude con MLK Song, arrangiata dal produttore M. Ward proprio sul testo di un suo sermone). Erano di casa dagli Staples, tra gli altri, Aretha Franklin, Sam Cooke, Curtis Mayfield. Hanno cantato nelle chiese, nelle radio, inciso decine di dischi, firmato con la Stax Records, venduto milioni di copie con singoli come I’ll Take You There (di cui è Mavis co-autrice ma non è accreditata) e dato alla comunità  afro americana delle pietre miliari come Respect Yourself. Ma basterebbe anche solo la loro apparizione in The Last Waltz di Martin Scorsese (girato nel ’76, uscito due anni dopo), per la grazia con cui entrano a dare eleganza e sostegno alla Band in The Weight (in Mavis! c’è anche un incontro con il batterista/cantante/attore Levon Helm).

Dopo uno stallo forzato, tra ’79 e ’89, dovuto alla massima espansione commerciale della disco e a condizioni capestro della casa discografica sui diritti, nell’86 è Prince a chiamare la Staples e le produce due album: Times Waits For No One (1989) e The Voice (1993), praticamente mai sostenuto dalla Warner per conflitti con l’artista di Minneapolis. Negli anni successivi la discografia si disinteressa a lei, che si autoprodurrà un album. Solo nel 2007, con l’aiuto di Ry Cooder (che produce We’ll Never Come Back) e con Jeff Tweedy poi, la sua carriera riparte: dopo Live: Hope at the Wideout (una raccolta di canzoni di liberazione, che dà idea della reazione del pubblico alla sua voce, uscita nel 2008, il giorno prima dell’elezione di Obama) il frontman dei Wilco supervisiona You Are Not Alone – che vince il Grammy 2010 nella categoria Best Americana – e One True Vine (2013). Mavis! è anche una testimonianza di quanto la mavis-staples-livin-on-a-high-note-album-coverStaples sia un punto di riferimento per gli artisti, non solo black. Nel 2011 è tornata al Newport Festival con i Decemberists per cantare The Weight (ma lo ha fatto anche con gli Arcade Fire) e nel 2013 ha partecipato a Washington al 50° anniversario della storica marcia. Dalle prime incisioni non ha mai abbandonato il cammino per l’uguaglianza, né si è allontanata dalle sue radici. Nel ‘55 Pops in Freedom Highway a proposito del linciaggio, nello stesso anno, del 14enne afroamericano Emmett Till, scrisse: “tutto il mondo si chiede cosa ci sia di sbagliato negli Stati Uniti”. La domanda, come tutto il mondo sa, ritorna ciclicamente in cronaca, fino alle violenze e proteste recenti di Ferguson e Baltimora, città “segregata”. Nonostante questo, Livin’ On A High Note (2016) – 12 canzoni scritte, tra gli altri, da Ben Harper, Bon Iver, Nick Cave, Benjamin Booker, Valerie June – è un disco pieno di amore per la vita e di volontà di proseguire sulla strada per l’uguaglianza. Dopo una vita passata a cantare canzoni sulla ricerca della libertà, ha chiesto che le scrivessero qualcosa di nuovo, di gioioso, ispirata da Happy di Pharrell Williams. «Ho detto agli autori che volevo qualcosa di simile, che facessero sorridere la gente, anche perché per tanto tempo l’ho fatta piangere». Pur nella celebrazione della vita, le domande di Pops (scomparso nel 2000) sono ancora lì. History Now (di Neko Case) si chiede cosa fare di una “guerra ereditata”. In Action, limpida chiamata alla prassi politica scritta da tUne Yards, avviene una sorta di passaggio di testimone alle generazioni future, un monito alla comunità: Who’s gonna do it if I don’t? (Chi lo farà se non lo faccio io?). Azione e passione, la cifra di Mavis. Nel film che porta il suo nome col punto esclamativo, con atteggiamento antidivistico, si congeda così: «Faccio quello che ho sempre fatto. Cerco di dare amore e musica alle persone». Con o senza Dylan.