Monte Hellman, il corsaro del cinema

Monte Hellman, adieu a 91 anni lo scorso 20 aprile. Si era ritirato da un decennio nella sua bella casa di Palm Desert, nella valle di Coachella in California, ma non era scomparso. Aveva anzi trasformato parte della sua abitazione in un B&B, tu andavi per farti un giro da quelle parti e poi magari a colazione scambiavi quattro chiacchiere con uno dei migliori cineasti indipendenti americani di tutti i tempi. La famiglia di Monte era ebreo-newyorkese ma si era trasferita a Los Angeles quando lui aveva 5 anni, e di quella città aveva poi catturato gli umori, il ritmo, lo sguardo meno conformista. Grazie anche a un mentore come Roger Corman, che lo fa esordire nel 1959 in Beast from Haunted Cave e lo chiama come assistente per uno dei suoi classiconi, La vergine di cera (1963). Poi diventa uno dei nomi fondamentali del contro western, la rilettura revisionista, tendenza progressista, del mito cardine della cultura americana. Nei confronti del quale, salvo eccezioni (Corvo rosso non avrai il mio scalpo è un capolavoro, ma la sceneggiatura, benché un po’ tradita, è di John Milius), chi scrive ha un milione di riserve. Il dittico di Hellman però, gusti personali a parte, resta una pietra miliare. La sparatoria e Le colline blu vengono girati quasi in contemporanea nel 1966, il secondo coprodotto da Corman il primo da Jack Nicholson, anche protagonista di entrambi (pure Jack, non dimentichiamolo, è artisticamente cresciuto nella Factory cormaniana). La sparatoria racconta di un cacciatore di taglie interpretato da Warren Oates, di suo fratello in fuga, di un ex pard paranoico con il quale intraprende un viaggio, pagati da una donna inseguita da un misterioso pistolero (Nicholson). Regia totalmente straniata, lo sguardo sembra sempre da un’altra parte rispetto agli eventi, e i personaggi a volte sono come in balia di una forza misteriosa, si percepisce la tragedia incombente ma mai la motivazione. Il critico Oscar Iarussi ha definito Monte Hellman «il Samuel Beckett del western», e ci sta tutto. Per Le colline blu bisogna fare a meno di Oates, che sull’altro set si era menato con Nicholson. Nonostante la sua assenza, il cast è comunque eccellente. Insieme a Jack, pure autore del soggetto, Cameron Michell e Harry Dean Stanton nei panni del bandito. Storia di tre cowboy che tornano da un rodeo, vengono scambiati per la banda di rapinatori di Stanton e perseguitati da vigilantes e affini. (In apertura un’immagine tratta da La sparatoria).

 

 

 

Strada a doppia corsia (1971)

 

Come nel western precedente, i destini dei protagonisti sono in mano al caso, e la regia si scarnifica ancora di più, con un totale disinteresse per ogni minimo accenno di epica. Siamo negli anni 60 e la modernità del cinema si esprime in questo modo, ci sta. A entusiasmarsi per la scrittura singolare, se applicata al genere, è Quentin Tarantino che citerà spesso Le colline blu tra i suoi (non pochi) western di riferimento. E Monte sarà produttore esecutivo di le Iene, anzi il primo in assoluto a credere nel talento dell’allora giovane e sconosciuto regista. Nel 1971 Hellman dirige e monta il suo capolavoro Strada a doppia corsia. Torna Warren Oates nei panni di un pilota di corse clandestine in Ferrari sfidato da due improvvisati corridori su una Chevrolet truccata, interpretati da James Taylor, il cantautore country pop, e Dennis Wilson dei Beach Boys, l’unico fratello “sano” del gruppo e il solo a fare veramente il surfista. Già il cast vale il prezzo del biglietto. Ma il bello del film sono gli atti casuali dei protagonisti, ancora una volta senza alcun movente, o scopo, che non sia quello di vivere viaggiando alla giornata. Un ribellismo silente, privo di ideologia, un anticonformismo alla Grande Lebowski in anticipo sui tempi (soprattutto QUEI tempi). Dopodiché Hellman si occupa di un sacco di cose in sordina, dietro le quinte: montatore, direttore della seconda unità (tipo di Robocop!!) revisore di sceneggiature, location manager. I progetti personali si diradano ma va segnalato Amore piombo e furore (1978), altro western fuori di testa con Sam Peckinpah nel cast. Totalmente libero Monte Hellman. Con il desiderio e la capacità di fare sempre il cinema che voleva, qualunque ruolo ricoprisse. Nel 2010, dopo vent’anni senza dirigere un film, riappare a sorpresa con Road to Nowhere che finisce addirittura in concorso alla Mostra di Venezia. Come ai vecchi tempi: se la storia sembra un pretesto per riflessioni altre (qui l’identità, il metafilmico, il senso del cinema) la regia è ricca di sorprese (merito di un raffinato lavoro sull’immagine digitale) e la lavorazione stessa, con esterni anche italiani abitati da troupe senza permessi e un low budget assassino, riporta alla ribalta lo stile corsaro dell’autore.

 

Amore piombo e furore (1978)